Il potere si muove come un orologio. Tic, tac. L’ingranaggio detta il ritmo, le lancette ruotano. Oggi gli esperti decidono e i politici comunicano. Insomma, il potere è un ibrido: si chiama tecno-democrazia. È questo il termine centrale nel saggio di Lorenzo Castellani, assegnista di ricerca e docente in Storia delle istituzioni politiche presso la Luiss Guido Carli di Roma, dal titolo «L’ingranaggio del potere», uscito nel 2020 per Liberilibri.
L’antica idea di rappresentanza, che trovava il suo centro nel rapporto tra uomo e società, non esiste più. È stata sostituita dal rapporto tra uomo e tecnica.
L’Italia sembra essere la culla della tecno-democrazia: da vent’anni, in tempi di crisi, i politici vengono sostituiti dai tecnici. Che succede?
Negli anni ‘90 l’Italia si esponeva ai processi di globalizzazione ed integrazione europea. Tutto ciò, però, è avvenuto senza una guida. I partiti tradizionali, che sfornavano gran parte della classe dirigente, erano evaporati. Questo vuoto ha fatto registrare l’incapacità della politica di fronte alle crisi. Così, si è deciso di fare affidamento ai tecnici. Per tre motivi: affrontare le emergenze, scaricare le responsabilità, neutralizzare conflitti politici.
Ci sono altri Paesi in cui avviene un processo simile?
A livello globale questa trasformazione va avanti dagli anni ’70, quando si sviluppano le caratteristiche della tecnocrazia: le banche centrali diventano più indipendenti, i mercati sovranazionali regolano la globalizzazione, i governi sono legati a una serie di vincoli internazionali. Ormai gli elementi tecnocratici e democratici convivono. Anche negli Stati Uniti si è verificato un cambiamento rispetto alla formula originaria, che prevedeva la centralità di partiti, Presidente e giudici. Il complesso di industrie, tecnici, lobbies e intelligence che gestisce parte del potere americano, oggi, non risponde più alla politica. Ciò avviene anche in Paesi come Singapore e Giappone, dove lo storico partito di governo ha una struttura tecnica e burocratica, oltre che politica, in grado di influire su più aspetti.
E il demos, che ruolo ha?
È in una situazione paradossale. La persona è sempre più importante a livello individuale, ma non a livello comunitario. Nei processi economici come nel dibattito su diritti: l’individuo è stato svuotato dell’idea di comunità. Perché, secondo il messaggio mandato dalla politica, il voto collettivo non ha più alcun valore. Insomma, si è fatto credere che la politica, se aiutata dall’economia e dalla tecnica, agisce bene da sola. Questa finzione, andata avanti per anni, si è scontrata con il grande spartiacque della nostra era: la crisi economico-finanziaria del 2008. Da quel momento, nessuno ha più creduto alla conoscenza specialistica dell’economia e della politica. Ci si è accorti che il benessere non era garantito e che la volontà politica non era rispettata. Così sono nati due fenomeni: astensionismo e populismo. Il “take back control” della Brexit, per esempio.
I politici come ne escono?
Non bene. In un primo momento, è stata proprio la politica a riversare le sue responsabilità sulle strutture tecniche. Poi, quando gli elettori hanno messo in discussione la legittimità di questo ordine, è tornata sui propri passi. Ha cercato di intercettare, e criticare, le forme tecnocratiche. Il problema è che, in Paesi come il Regno Unito, questo processo inverso può avvenire. Nei Paesi deboli, finanziariamente e politicamente, è più difficile.
Che succederà?
La politica rischia di avere un ruolo sempre più marginale. Già oggi il ruolo dei partiti e dei parlamenti non è più quello dei secoli scorsi. Ma questo fenomeno non è isolato. Pensiamo all’esercito, che nei secoli scorsi aveva un grande potere anche a livello sociale. Oggi i nuovi attori sono le organizzazioni internazionali, i tribunali, le banche centrali.
E il populismo, che è un fenomeno nuovo, in questo processo di tecnicizzazione, che ruolo ha? Emerge o vacilla?
Lo capiremo tra qualche anno. Se la tenuta sociale ed economica sarà solida, scomparirà. Nel frattempo, la pandemia ci ha insegnato una cosa: i populismi non nascono sempre dalle paure. Anzi, con il covid il populismo è stato neutralizzato dalla paura. Le persone, per timore del contagio e della morte, non hanno seguito teorie demagogiche. Ma hanno accettato un potere unificato, saggio.
Durante il momento di emergenza in cui viviamo, è meglio privilegiare la competenza o la democrazia?
Preferibilmente, entrambe. In un momento di crisi è naturale e giusto che ci sia maggiore forza dello Stato. Questa situazione non può essere infinita. Rischia di subire dei contraccolpi dal punto di vista politico e sociale. Potrebbe emergere una sfiducia verso un sistema troppo paternalistico o, dal lato di chi governa, ci può essere un eccesso di zelo che può erodere la democraticità. Dopo il necessario adattamento dello Stato all’emergenza, la regolarità democratica dovrà essere ristabilita.
Dopo le analisi e le constatazioni, c’è anche una proposta?
Sì. La tecnica sta emergendo sempre di più, è vero. Ci sta aiutando ad affrontare la pandemia e sarà sempre più importante. Ma la tecnica, da sola, non ce la fa. Le scienze non sono infallibili. E un mondo di specialisti è un mondo senza baricentro, incapace di dare significato agli eventi. Perciò c’è bisogno che la tecnica sia integrata. Con i valori, con l’etica, con la morale. La persona deve venire prima della tecnica e del potere. Ma non la persona come individuo. Bensì, come comunità. Lo si legge nelle encicliche di tutti gli ultimi Papi e nei libri dei personalisti cristiani: non si può costruire un sistema solo dall’alto. C’è bisogno di solidarietà e sussidiarietà. Di legittimazione dal basso.
Nella pratica cosa significa?
Che la politica non può rivolgersi solo ai tecnici o all’economia. Durante la pandemia abbiamo avuto un grande connubio tra Stato e aziende. La persona, però, in questo dialogo è stata ridotta ad un oggetto. Abbiamo tutelato la salute fisica, ma non quella mentale. Non abbiamo capito che i fenomeni sociali hanno delle ripercussioni politiche. La solitudine degli anziani, le rotture familiari, la disoccupazione. Siamo in una società fatta di estremismi: da un lato, chi accetta tutto; dall’altro, chi vede complotti ovunque. Chiunque è costantemente in cerca di una spiegazione ad ogni singolo fenomeno. Al contrario, anche in una società tecnologicamente avanzata, bisogna imparare ad accettare l’errore, l’incertezza, il rischio. Proprio qui diventa fondamentale la collaborazione tra politica e morale. Sarebbe importante alimentare l’interazione con cooperative, realtà locali, col mondo del volontariato. Bisogna avvicinarsi ai cittadini. Il potere non può andare solo verso l’alto. Altrimenti la comunità, la persona umana, viene travolta: le lancette girano a vuoto e l’ingranaggio del potere s’inceppa.
L’Osservatore Romano – 14/12/2021