Sul campo di battaglia navale le pedine hanno assunto una nuova forma: non più solo navi da guerra e pescherecci, ma petroliere, sottomarini a comando remoto e perforatori. Al largo si scorgono anche delle piattaforme con pale eoliche. Che succede?
Cell Press l’ha definita «blue acceleration»: la crescita delle esplorazioni umane nell’Oceano. Secondo l’Ocse, il 64% del fatturato ricavato dall’economia dell’oceano proviene dall’industria del petrolio e del gas off-shore. Ma recentemente sta emergendo una nuova attività: la deep sea mining, ossia l’estrazione di minerali dai fondali oceanici. Disciolti nelle acque e depositati in profondità, si trovano i noduli polimetallici. Come riportato da uno studio della Us Geological Survey, i noduli sono aggregati di minerali, assumono la forma di una patata e sono composti da vari elementi chimici: manganese, nichel, rame, cobalto, ferro, silicio, alluminio. Tutti metalli importantissimi per le moderne attività economiche. Ad esempio, le batterie più usate nelle auto elettriche sono formate da nichel, manganese e cobalto. Il catodo formato da questi tre elementi permette di ottimizzare la batteria, aumentarne l’autonomia e diminuire i tempi di ricarica. Per quanto riguarda il nichel, al momento il 70% della produzione è destinato al mercato dell’acciaio inossidabile e solo il 5% è usato nell’automotive: ma come evolverà la situazione di fronte alla nuova rivoluzione energetica e all’aumento di domanda e offerta di auto elettriche? Quanto sarà importante cercare nuove strategie di estrazione? Poi, nella profondità degli oceani Atlantico, Pacifico e Indiano si trovano più di 120 milioni di tonnellate di cobalto. Questo elemento viene usato nelle leghe metalliche (motori d’aereo) o nei catalizzatori. Nella profondità delle dorsali oceaniche ci sono depositi di fosfati, utilizzati come nutrienti per le piante, ma anche per la produzione di carne o biscotti.
Insomma, i noduli polimetallici contengono una serie di elementi importantissimi per la rivoluzione digitale. Nei fondali oceanici, la quantità totale di noduli è pari a 500 miliardi di tonnellate. Le aree più interessate sono gli oceani Pacifico e Indiano, il largo delle isole Cook e le acque del nord Europa. Che fare? Estrarli, ovviamente! Non è così facile. I noduli si trovano in fondali dove le temperature sono vicine allo zero, la pressione atmosferica è altissima e c’è scarsità di luce. Ancor più, spesso queste acque appartengono alla comunità internazionale e, quindi, rientrano sotto la giurisdizione dell’Autorità internazionale dei fondali marini (Isa). Essa si occupa di proteggere i fondali e di organizzare le estrazioni attraverso la concessione di contratti di esplorazione. L’Isa, ad esempio, controlla i fondali delle acque tra le Hawaii e il Messico, che contengono 21 miliardi di tonnellate di noduli polimetallici, per un valore complessivo di circa 16 miliardi di dollari. Inoltre, il processo di estrazione richiede tempo e denaro. E i costi ambientali? Secondo la comunità scientifica, altissimi.
Tuttavia, ciò non ha impedito ad alcuni Paesi di iniziare ad estrarre i noduli dai fondali: fra questi, Cina, Nuova Zelanda e Unione europea. Quest’ultima ha finanziato, avviato e portato a conclusione (nel 2020) il progetto Blue Nodules. Attraverso un tubo flessibile e un cavo di trasmissione immesso nelle acque marine, i noduli vengono raccolti e trasportati sul veicolo di raccolta subacquea Apollo II . Poi, a bordo dell’imbarcazione, i noduli vengono staccati dai sedimenti, disidratati e, attraverso un ulteriore tubo, l’acqua viene reimmessa in mare. A questo punto, un’altra nave preleva il minerale per poi trattarlo su terraferma ed estrarre i metalli. Il progetto Blue Nodules ha già un successore: il Blue Harvesting, che si concentrerà sul miglioramento dell’estrazione per mitigare l’impatto ambientale, preservando velocità ed efficacia della produzione.
Il processo estrattivo svela molteplici vantaggi della deep sea mining. In primis, l’ammodernamento delle infrastrutture permetterebbe di ridurre le emissioni e rilasciare meno gas serra nell’aria. Un risultato non da poco se si pensa ai metodi estrattivi di certi metalli sulla terraferma (che, anche se utili alla rivoluzione green, generano inquinamento e deforestazione). Poi, i giacimenti oceanici sono più vasti: una ricerca dell’Ispi fa notare come «la sola zona Clarion-Clipperton, al largo dell’oceano Pacifico, conterrebbe una quantità di manganese, nickel, cobalto, titanio e ittrio superiore all’intera riserva terrestre». Infine, se il processo di estrazione e trasporto su terraferma dei metalli avviene con le navi, non sarebbe necessario costruire strade o punti di collegamento, ma “solamente” migliorare le infrastrutture stesse (porti e imbarcazioni).
Eppure, non è così facile. Il rischio di inquinamento per le acque oceaniche e di danni irreversibili agli ecosistemi sottomarini è molto alto. Per capire, si dovrebbe incoraggiare una maggiore cooperazione internazionale scientifica sulla tecnologia marittima. Si potrebbe anche migliorare la base statistica e metodologica sulle industrie marittime oceaniche. Con la partecipazione di tutti e, soprattutto, senza escludere i Paesi più deboli. I temi sul tavolo sono molti: politica, economia e ambiente.
Forse, proprio per questo, ci si aspettava che un tema del genere venisse trattato alla Cop26. I riferimenti agli oceani, invece, a Glasgow sono stati pochi e ben confusi.
L’Osservatore Romano – 19/11/2021