Registrare, riavvolgere, raccontare. Ecco il procedimento che ho seguito in queste quattro puntate per trascrivere le idee dei ragazzi su Dio. Registrare le nostre chiacchierate, a volte durate più di un’ora, per immergermi nell’ascolto, evitando la frenesia dell’appunto sul taccuino. Poi riavvolgere il nastro per sviscerare le riflessioni. Infine, raccontare per scolpire su carta la loro voce. Chissà che non mi capiterà anche in futuro, in cerca di altre risposte. O quando andrò a caccia di ricordi e incapperò casualmente nell’hard disk della gioventù. Mentre la malinconia bussa alla porta, una scampanellata di realtà: il limite di caratteri. Dunque, iniziamo. Nata grazie a una riflessione di don Francesco Cosentino, la domanda che ho rivolto ai ragazzi è «Chi è Dio per te?».

La risposta di Valerio rappresenta i dubbi di molti. «C’è una grande differenza tra la domanda cos’è Dio e chi è Dio. La mia idea su chi sia Dio è piuttosto incompleta. A me non è mai capitato di avvertire la sua presenza. Non saprei neanche dove e come cercarlo. Da piccolo mi suggerivano di pregare e confessargli le paure. Poi mi hanno spiegato che, per comprendere Dio, non bisogna cercare un rapporto do ut des, bensì una relazione basata sulla reciprocità. Diciamo che avevano poche idee ma confuse. Dio non può essere il libretto delle soluzioni in omaggio con la settimana enigmistica. Non esiste una formula magica né un tempo prestabilito. Attualmente, cercare Dio non mi appaga quanto vedere la reazione, umana e tangibile, a una mia buona azione: un sorriso o una parola d’affetto sbocciata grazie a un gesto. Ma non escludo di poterlo incontrare proprio grazie a uno di questi eventi. Se accadrà, ti farò un colpo di telefono».

Matteo, dopo alcuni minuti, mi indica la pioggia che cade sul vetro della macchina. «Uscire di casa con la consapevolezza del rischio ma con la speranza della gioia. Bagnarsi oggi sapendo che domani ci si potrà asciugare. Ma, sempre e comunque, vivere. Dio per me è una compagnia che provoca uno stato d’animo del genere. La consapevolezza delle proprie azioni e il desiderio dell’esperienza. E, nel mio caso, la serenità. Quella cosetta leggera che mi fa trovare la forza di fare del bene, senza lasciarsi trasportare dalla cattiveria».

Poi c’è il pensiero di Nicolò. Disordinato come la sua stanza, profondo come le radici di una quercia. «La storia e la filosofia sono il mezzo migliore di cui dispongo per risponderti. Anche se non riesco a dare una forma materiale o religiosa a Dio, io ho un mio Dio. Un Dio a cui mi capita di parlare e che spero possa sentirmi. Per me Dio è un occhio costantemente aperto che ci osserva. Scruta, ammira, interpreta. Di giorno e, ancor più, di notte, quando rivolgiamo lo sguardo al soffitto, vuoto di colori ma carico d’immagini e speranze. A volte vorrei che Dio fosse anche una mano in grado d’indicarmi la via, ma sono così attaccato alla realtà che mi viene difficile crederci. La mano ce la devo mettere io. A ogni modo, credo che sia bello parlare con qualcuno che non ha una forma precisa. Siamo sempre più abituati a identificare qualcuno prima per poi conoscerlo ed interagirvi. Nella vita come nei social. Invece con Dio avviene il contrario. È un rapporto inversamente proporzionale: più vi interagiamo, più la sua straordinarietà non ci permette d’identificarlo nella realtà. La risposta a chi è Dio per te non è data dalla qualità della risposta, ma dall’intensità delle domande che ci poniamo. La sua incredibilità è tutta qui».

«E per te chi è Dio? Sì, tu, autore dell’articolo. Credevi di sfuggirci?». Alla fine di questo viaggio a me piace pensare di aver intravisto Dio nello stupore dei ragazzi di fronte a una domanda così particolare. Nei silenzi, nelle insicurezze, nei sorrisi finali. «Sei soddisfatto?» mi hanno chiesto spesso, un po’ titubanti. Per me Dio è lo spazio che contemporaneamente separa e unisce noi al prossimo. L’astratto che si fa concreto perché vitale per l’interazione. Il vuoto da riempire con gesti e parole, e che permette di riconoscere ed essere riconosciuti. Quei centimetri, impalpabili, che congiungono chi accoglie a chi è accolto. Il metro di distanza che solo la forza dell’amore può valicare. Dio non è altrove e non è oltre. Non è seduto sull’Olimpo. Anzi, è divino perché è umano. È nel lato più visibile e più fragile. Nel dolore di chi vorrebbe ma non riesce ad esprimersi. Nel grido disperato di un muto. Nelle lacrime di chi piange e non sa dove cercare aiuto. Nella strada per le stelle che tratteggiamo con chi amiamo. Noi? Dobbiamo solo tendere la mano. E non lasciare che ceda alla prima difficoltà.


L’Osservatore Romano – 3/5/2021