Eccolo, un altro granello di polline che penetra dalla finestra della stanza. Bianco ma sporco, poi morbido, silenzioso, piccolo. Dall’esterno s’infiltra. Dalle strade di Roma, caotiche e frenetiche, si affaccia nelle case, silenziose e disordinate quanto gli animi dei proprietari. Anonimo e inosservato, il chicco di polline attraversa la scrivania, il letto e l’armadio, a volte si adagia sul parquet. Ma non s’intrufola per infastidire. Si poggia e resta lì. Forse anche per ascoltare ed osservare. O, magari, per cercare rifugio.

È piacevole pensarla così. Personificare un oggetto apparentemente insignificante e a tratti invisibile. Perché, a volte, anche noi vorremmo intrufolarci nella vita degli altri per poggiarci e restare lì. Quieti, soffici, impercettibili. Conoscere le loro storie, coglierne le emozioni, alimentare le domande, arricchire le risposte. Vorremmo anche oltrepassare gli ostacoli con la stessa facilità con cui un granulo di polline supera una barriera di vetro. E, nei momenti più complessi, vorremmo anche essere piccoli e insignificanti come quel chicco di polline. Liberi dalle responsabilità, svuotati dalle paure, dediti solo ad atterrare, ascoltare ed osservare. Cercare un riparo nel prossimo. E, parallelamente, essere un riparo per l’altro. La reciprocità.

Guardando bene quel chicco di polline, ora appollaiato sulla mensola della libreria, viene in mente il contact tracer. Ne abbiamo forse sentito parlare in questi mesi: è la persona che si occupa di ricostruire tutti i contatti e i movimenti fatti da una persona risultata positiva al covid-19, con lo scopo di ricomporre e interrompere la trasmissione del contagio. Dall’ambiente lavorativo a quello sociale, incluso quello relazionale e familiare. I contact tracer indagano su tutta la vita dei pazienti. Si fanno raccontare storie. Scorci, immagini, attimi di vita. Anche segreti. Sono stati definiti “i detective dei contagi”. Io preferisco chiamarli “i chirurghi dell’intimità”. Coloro che aprono, smuovono, indagano ed operano nell’interiorità degli altri. Tessere la tela della socialità altrui, intrecciare le esistenze e curare le preoccupazioni. Si potrebbe pensare a questi operatori come a delle lenti d’ingrandimento o ad un telescopio puntato su un pianeta. Anche ad un primissimo piano alla Sergio Leone, che rapisce, estrae ed esalta gli occhi, la storia e i sentimenti di un attore. Oppure, paragonarli proprio ad un chicco di polline che, prima, s’intrufola dalla finestra per cogliere qualcosa delle nostre vite, e poi esce per viaggiare verso nuove destinazioni.

Chi scrive non ha mai conosciuto, fino ad ora, un contact tracer. Per questo, il personaggio che animerà nelle prossime settimane una serie di articoli nelle pagine delle Cronache romane de «L’Osservatore Romano», sarà solo ispirato alla realtà. Le storie dei suoi pazienti, invece, saranno incentrate su personaggi reali che manterranno l’anonimato. Persone dai volti apparentemente anonimi ma che, nella propria quotidianità, svolgono una funzione. Per la città o, più semplicemente, per chi vive intorno a loro. Un “rider”, un ballerino, un venditore di libri usati, un migrante, un giovane e un fotografo. Può essere l’occasione per parlare di ambiti lavorativi emergenti o di figure messe in difficoltà dalla crisi pandemica. Ma, ancor di più, può essere l’occasione per parlare di tutti noi. Persone comuni, spesso di passaggio o di fretta, dai tratti anonimi per molti, ma essenziali per chi vive intorno a noi. Viaggiatori senza nome, ma con una storia. Chicchi di identità che, sfiorandosi, si mescolano
per le strade.

Tutto ciò vale per ogni città ma, per Roma, ancor di più. Perché Roma è un luogo fatto di storia, monumenti e chiese, ma anche e soprattutto di storie, ricordi e incontri. Si passeggia per via Margutta e s’incontrano degli adolescenti aspiranti “tiktoker”. Si fanno due passi sul Lungotevere e ci si imbatte nella povertà, quella “brutta, sporca e cattiva”, fatta di bugie e paradossi, ma piena di storie e sorrisi. Si cammina in piazza Ungheria e s’intravede un cartellone pubblicitario col volto di Alberto Sordi che sorride, come se fosse lì solo per noi e per rallegrare la nostra giornata di passanti. Un tocco di romanticismo e una lacrima di nostalgia.

Ecco, Roma. Languida, malinconica, premurosa come una mamma, quasi affettuosa, ma sempre autorevole e maestosa. Non si smette mai di imparare a guardarla. Incute timore, Roma. Da ogni punto di vista. Perché giudica e perdona. E non si capisce mai quando faccia l’una o l’altra cosa. Ha sempre qualcosa da insegnare. Ecco perché è una città che resiste da più di duemila anni. Questo è il luogo in cui si muoveranno Elena, la contact tracer, e i racconti dei suoi pazienti. La loro storia parte proprio da qui.


L’Osservatore Romano – 29/5/2021