C’è aria di riapertura fra le strade di Roma. Camminando per la città, si sente un profumo particolare e indefinito: ricorda quello del futuro. Ma di un futuro “anteriore”. Un domani che cerca di definirsi guardando alla normalità della vita passata. Sarebbe fin troppo complicato, dopo una pandemia, cercare persino una nuova quotidianità. Meglio rincorrere le abitudini del passato e riadattarle al presente. In mezzo a tutto ciò, la lotta al Covid-19, seppur con numeri più bassi, continua. E, con essa, il lavoro di migliaia di operatori sanitari. Anche se ne vorremmo sentir parlare meno. Loro ci sono. Dentro e fuori gli ospedali. Ricordare il loro impegno è necessario per evidenziarne gli sforzi e per comprendere come muoversi nel futuro.
È il caso di Elena, la contact tracer oggi, alle prese con un tracciamento sempre meno frequente e complesso. È per questo motivo che può dedicare più tempo ad ascoltare le parole dei suoi pazienti. Lei è “una chirurga dell’intimità”. Non vuole solo ricomporre la trasmissione del contagio. Elena vuole innanzitutto conoscere la persona, indagare la storia, ascoltare le parole. Far sentire il prossimo a proprio agio. E così avviene con il primo paziente. Si chiama Giulio, ha 26 anni ed è un rider. Un lavoratore che, con il suo motorino, effettua consegne a domicilio tra le strade e le case di Roma.
«Faccio questo lavoro da un paio d’anni», le rivela Giulio, «ed ho continuato anche durante la quarantena di marzo 2020. Noi riders viviamo di sera. A metà tra il tramonto e la notte. In quei giorni e in quegli orari, Roma era amorfa. Insolita. Spoglia. La quiete apparente di una città misteriosa e taciturna si era fatta inquietudine. Semaforo dopo semaforo, strada dopo strada, silenzio dopo silenzio, quelle sere assumevano sempre più i tratti di giorni indefiniti. Girare per le strade della mia città era come giocare in un videogioco in prima persona. Un’esperienza futuristica. Le saracinesche dei locali abbassate, i marciapiedi vuoti, l’eco del silenzio nelle discoteche. A Roma mancavano i suoi rumori distintivi. I clacson e lo stridore dei freni. Gli annunci dell’arrotino, i dialetti, le parole dei turisti. Le risate sui marciapiedi. Seduti o in piedi, ma comunque felici. Quando lavoravo e vedevo tutto ciò, provavo invidia. In quei giorni di quarantena, invece, mi sentivo un privilegiato. A volte, ricordare fa bene. Non solo è stimolante per la mente, ma è anche necessario per il futuro. Per capire come vorremo essere e cosa vogliamo evitare»
Elena: «In effetti, non bisognerebbe ricordare solo i momenti lontani, ma dovremmo essere capaci di fermarci a riflettere, talvolta, su cosa abbiamo vissuto nell’ultimo periodo e su come stiamo orientando la nostra vita. È uno sforzo necessario soprattutto in questi giorni di ripresa della quotidianità. Prendere consapevolezza per orientarsi. Ad ogni modo, credo proprio che, in quei giorni lontani, di scene suggestive ne avrai vissute molte»..
Giulio: «Sì. Il lavoro era diventato l’unico modo per evadere da casa. Per esempio, ogni sera, prima di tornare a casa, passavo sotto casa di mia nonna, la chiamavo al telefono e le chiedevo di affacciarsi dalla finestra. Non vederla per così tanto tempo mi ha destabilizzato. Avevo bisogno dei suoi sorrisi. Ho anche fatto la consegna più originale della mia vita: ho regalato una pizza ad un senzatetto. E sono finito per fargli un po’ di compagnia. In quel periodo, tutti credevamo di essere fragili. Così, ci siamo dimenticati di chi lo era realmente e di chi continua ad esserlo. Poi, una sera, lungo il tragitto, sono stato cullato dal canto dei bambini. Intonavano l’inno di Mameli. Come in una cavea, le loro voci rimbombavano per tutta via Nomentana. Erano anonime, candide, innocenti. La loro dolcezza mi ha commosso. Sembrava di essere in paradiso. Ho creduto che i bambini stessero cantando anche per me. Ascoltarne le voci, ma non intravederne i volti. La paradossale potenza dell’isolamento. I bambini sono sempre dalla nostra parte».
E, con questa scia di ricordi, Elena non può che dirsi soddisfatta del suo obiettivo iniziale. Ha stabilito un rapporto. Ha sciolto la cera dell’imbarazzo ed ha acceso la candela della reciprocità. Due sconosciuti possono abbattere la barriera della lontananza anche con una webcam. Unico ingrediente richiesto? La parola. E la capacità di saperla dosare, condire, valorizzare. Come ha detto pochi giorni fa Papa Francesco, «la vicinanza è un balsamo prezioso che dà sostegno e consolazione a chi soffre»
«Le tue parole eliminano ogni lato negativo di questo mestiere», osserva Elena, «eppure, sappiamo che ci sono molti aspetti complessi. La maggior parte dei riders sono considerati lavoratori autonomi e non hanno un contratto. Perciò, non possono usufruire delle ferie o dei periodi di malattia. Non esistono neanche casi d’infortunio, per lavoratori che sono a stretto contatto con il traffico notturno. Ma a te piace questo lavoro?»
«A volte ho pensato di essere invisibile. Nel mio mestiere, più che negli altri, ad essere importanti non sono le persone, ma l’oggetto. Al cliente non importa se il fattorino sia maschio o femmina, intelligente o timido. Lui ha già comprato il prodotto. Deve solo ritirarlo. Gli interessa che l’ordine arrivi in orario e la pizza sia buona. Io sono funzionale alla realizzazione di un desiderio. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, a me piace pensare che, in fondo, le persone mi aspettano. Mi vogliono. Mi aprono le porte della loro intimità. È un inconsapevole gesto di fiducia. Per me è fondamentale il rapporto con le persone. Io non vedo quali pizze sono contenute nel cartone. Io vedo i cuochi che le preparano, i ragazzi che prendono le ordinazioni e gli altri fattorini. Poi incontro il cliente. I suoi sorrisi e la gentilezza, oppure la sua maleducazione e indifferenza. Ogni singola sfaccettatura dell’essere umano. Ogni dettaglio che determina il suo stato d’animo nei miei confronti. Mi piace, poi, sulla via del ritorno, chiedermi perché un cliente mi abbia accolto in un certo modo. Da dove deriva la sua felicità? Di chi erano le voci e le ombre dietro la porta a vetri? Insomma, che storia c’è dietro ogni persona e dietro i suoi comportamenti? Questo lavoro mi ha insegnato a riflettere su tutto ciò. Anche a giustificare gli atteggiamenti sbagliati del prossimo. O, almeno, a cercare di capirne le possibili motivazioni. Nel lavoro ma, soprattutto, nella vita. Si finisce per comprendere come anche noi stessi, a volte, possiamo essere il prossimo. È per questo che ti dico di sì: ci sono tante difficoltà, ma a me piace ciò che temporaneamente faccio. E non vedo l’ora di tornare a farlo».
Adesso Elena può iniziare la parte più preziosa del suo lavoro: prendere appunti per monitorare gli spostamenti di Giulio, così da contattare e far sottoporre a un tampone chi ha frequentato il ragazzo positivo al Covid. Ma questa è tutta un’altra storia.
L’Osservatore Romano – 5/6/2021