«Io mi ricordo le notti passate tra i luoghi isolati e le montagne del mio paese, la Repubblica Democratica del Congo. Ricordo le speranze e le incertezze. L’impegno. Le opportunità che passavano ed io che dovevo acchiapparle. Ricordo le preghiere per ottenere il visto per arrivare a Roma. Ho lasciato la mia casa e la mia famiglia per mettere piede in quella che considero la città santa. Roma, nei miei pensieri, c’è sempre stata». Sono queste le parole con cui esordisce Clarisse, una ragazza congolese, di fronte ad Elena, la contact tracer che si dedica ad ascoltare ed intrecciare il filo delle persone nella città.
«Quando ho saputo che sarei potuta venire in questa città» continua Clarisse, «non ho dormito per la gioia. Per noi africani Roma è un mistero: rappresenta la Chiesa, la storia, l’altra parte del mondo. Ho pensato di essere tra le persone scelte e degne di vivere questa opportunità. Sono arrivata qui nel 2015 con la missione delle laiche consacrate, una comunità che vive nel mondo con i voti e testimonia Dio nel proprio piccolo, attraverso le storie e la parola. Una volta arrivata alla stazione Termini e dopo aver visto le persone, gli abitanti di Roma, mi sono commossa. Ho percepito la normalità e la straordinarietà, la continua lotta tra storia e modernità che caratterizza questa città. Mi sono improvvisamente domandata se sarei mai riuscita a diventare parte di tutto ciò».
Elena vorrebbe interrompere Clarisse per dirle che, dato il sorriso e l’entusiasmo con cui racconta la sua esperienza, si è adattata non bene, ma straordinariamente bene. È un volto, quello di Clarisse, fuori dall’ordinario. Gioioso, acceso, armonioso. È bastata una semplice domanda per accendere la miccia dell’entusiasmo. Avvertenza per l’uso: si tratta di un’esplosione pirotecnica e vivace. Si possono tappare le orecchie, ma non coprire gli occhi. Servono per guardare, leggere, ammirare.
Clarisse: «Per me Roma è stata anche un termine di paragone con le mie origini. Una città in cui far valere la mia cultura. Non nasconderla, ma arricchirla. Ci sono riuscita attraverso una mia grande passione: la scrittura. Fin da piccola a casa mi dicevano che parlavo troppo. Così ho iniziato a esprimere tutti i miei pensieri per iscritto. Dal rapporto con i miei quaderni è nata la fantasia. Una relazione fatta di silenzi ma anche di tante parole, immagini, racconti. I quaderni non solo mi ascoltavano, ma mi accoglievano. E io, a volte, finivo per ascoltare loro. Grazie al racconto «La donna scomparsa» ho vinto il Premio Letterario Migranti nel 2017. Cerco spesso di narrare la storia delle mamme africane. I loro viaggi, i figli, quel tipo di sensibilità. Per me una mamma africana vive un giorno fatto di mille ore. La vita delle donne dev’essere una continua ricerca del meglio. Qui come altrove».
Elena: «E da questo confronto cosa hai compreso?»
Clarisse: «Ho notato che in Europa, ultimamente, vige una certa forma di individualismo. Le persone vivono vicine, ma non si conoscono. Ognuno cerca la soluzione al proprio problema. In Africa no. Tutti siamo fratelli. Comunichiamo, ci fermiamo, mangiamo insieme. E credo che questa differenza dipenda anche dalla formazione che viene data ai bambini. In Africa, prima ancora del lavoro, si va in cerca dell’acqua e della luce. Si percorrono chilometri in cerca di una piccola soddisfazione. L’unica forma di eredità che esiste è quella degli oggetti e, per i bambini, dei giocattoli. In Italia, invece, c’è spesso una rapida e facile soluzione ai problemi. Il che può essere un conforto ma, a tratti, anche una condanna. Se si ha tutto a portata di mano non siamo spinti al cambiamento. La persona si adatta e adagia. Non va oltre le proprie possibilità. Non indaga su ciò che si cela dietro l’apparente comodità. Solo perché non gli conviene. Ha già tutto».
Elena: «Sei da pochi anni a Roma, ma sembra che tu abbia già capito molto. Forse, a volte, per comprendere servirebbe solo un termine di paragone. Un confronto con un luogo in cui la vita scorre meno freneticamente o in cui si valorizzano nuovi aspetti. Un po’ come il Congo per te. Un po’ come l’esperienza fuori dal proprio paese che è sempre più consigliata ai ragazzi».
Clarisse: «La mia vita è stata attraversata dai cambiamenti improvvisi e dalle gioie sperate. In Congo, dopo il diploma negli studi classici, avrei dovuto sostenere un colloquio per capire se intraprendere gli studi giuridici o politici. Ma il giorno dell’esame ho avuto un incidente. Sono stata sei mesi in ospedale e, per alcuni giorni, anche in coma. Durante la riabilitazione, andavo spesso a visitare il centro infermieristico. Osservavo ed imparavo molte cose, tanto che mi sono convinta a seguire proprio le scienze infermieristiche come percorso di laurea. A Roma, dopo aver imparato l’italiano ed aver sentito che il sacerdote, durante la messa, parlava del Papa come il nostro vescovo, mi sono emozionata. L’ho finalmente sentito vivo, vicino. Lui è anche il mio vescovo. Poi, ad esempio, quando ho visto per la prima volta gli scavi dell’antica Roma, ho pensato che esista un’altra città sotto la città. Ho avuto l’impressione che le persone vivano a Roma come su una scala del tempo. Dall’antichità alla modernità. Dal sotto al sopra. Basta poco per ritrovarsi da una parte all’altra. Come dal passato al presente. Servono solo i ricordi».
E il futuro? Che scala ci ritroveremo a percorrere? Chissà. Possiamo sperare che il panorama desti lo stesso stupore degli scorci romani. Storici, immensi, abbaglianti. Unici. E poi possiamo sperare che le parole di Clarisse ci abbiano fatto capire il valore e l’unicità di ciò che abbiamo intorno. Troppo spesso lo dimentichiamo. Ma lontano da qui c’è qualcuno che sogna il nostro mondo. Prega, spera, s’impegna per arrivarci. È la storia di tante donne e uomini. È anche la storia di Clarisse. Di chi vive col sorriso, sempre.
L’Osservatore Romano – 25/6/2021