Giulio, Marcopaolo, Luigi, Clarisse, Fabio, Thomas. Un rider, un danzatore, un venditore di libri usati, una migrante, un fotografo, un regista teatrale. Sei nomi, sei volti, sei racconti. Un tratto comune: Elena, la contact tracer conosciuta più di un mese fa, che ci ha aiutato a ripercorrere alcune storie di Roma. Alla base di ogni città ci sono piccole narrazioni. Scorci di persone comuni e semplici. Ma straordinarie. Essenziali. Perché, senza di loro, quella città non diventerebbe comunità.
Avete presente il Grande Raccordo Anulare? Ecco, in queste settimane anche il filo narrativo di Elena ha circondato la città. Ha collegato la realtà all’immaginazione: i sei racconti di persone realmente esistenti al personaggio della contact tracer. Il filo della città ha unito nomi a racconti, lavoratori a persone, strade a quartieri, rimorsi ad amori. Storie straordinarie nella loro ordinarietà. Le possiamo incontrare scendendo per strada e girando l’angolo. Ma spesso, proprio perché così vicine, non attirano la nostra attenzione. Fingiamo di conoscerle. Eppure, hanno molto da raccontare. Dunque, Elena ha avvolto la città nel gomitolo della realtà. Ha scavato nella quotidianità ed ha costruito collegamenti, come si fa nei cantieri stradali. Materiale consigliato? La parola. È ancora meglio del cemento armato. Resiste, solidifica, addolcisce. Non solo scolpisce la strada, ma indirizza la via. Avvertenza: procedere con cautela. La parola dev’essere compresa e amata, non strumentalizzata. Permette d’immaginare i lineamenti di volti poco conosciuti. Di percepire profondità e sincerità di una voce dalle chiazze d’inchiostro sparse su una pagina. E, nel nostro caso, di viaggiare tra i cuori di Roma. Silenziosi ma pulsanti.
Ma, al di là di ciò, cosa fa una contact tracer? Consultiamo l’Accademia della Crusca: “il compito del contact tracer è di rintracciare un individuo affetto da malattia infettiva, indagarne gli spostamenti e poi intercettare le persone entrate in contatto con il soggetto per dare loro le indicazioni necessarie”. Questo sistema ha funzionato in Italia durante la pandemia da Covid-19? Poco. I dati lo dimostrano: ad ottobre 2020, secondo il Sole24Ore, i tracciatori erano poco più di 9mila. 1,5 ogni 10mila abitanti. Troppo pochi per rispondere ai grandi numeri che ci hanno terribilmente accompagnato fino a pochi mesi fa. Ed ora? Il contact tracing è ancora utile? Luca Mazzacane su Il Foglio, in un articolo del 10 luglio scorso, non ha dubbi: «Non ci resta che sequenziare. Il processo di tracciamento è fondamentale nella lotta al virus. Questa trafila però non è finalizzata solo al Covid-19. Indirettamente, questo processo, se ben coordinato, permetterebbe di evitare una nuova ondata durante l’estate, permettendo di concentrarsi sulle patologie croniche e oncologiche, le quali terapie sono state assenti o intermittenti con le saturazioni dei servizi sanitari durante le ondate».
Un’operazione utile ma risultata in parte fallimentare non dev’essere sostituita o eliminata. Si può migliorarla. Suggerimenti? Uno, sicuramente, lo si può trarre proprio osservando il personaggio di Elena: bisogna assumere più personale, certo, ma con criterio. I contact tracer non sono call center. Devono conoscere ed indagare. Fare domande mirate, essenziali. Approfondire. Avere capacità umane e relazionali nei confronti di chi si sente in pericolo, per se stesso e per il prossimo.
Insomma, il personaggio di Elena non è stato solo un espediente narrativo per raccontare sei storie romane. Né vuole essere una guida per gli aspiranti tracciatori. Piuttosto, Elena rappresenta un’inclinazione dell’animo umano. Un filo teso verso il prossimo e che necessita di altre mani per essere tirato, arrotolato, accudito. Elena incarna dei valori che dovrebbero essere adottati nei rapporti umani, indipendentemente dal proprio lavoro. La ricerca della valorizzazione del prossimo. La cura, intesa non solo come attenzione, ma come partecipazione. Come empatia. Sincera e profonda. Stimolata dalla curiosità e dalla pazienza. Dall’ascolto del prossimo. Dalle domande che si pongono e dalle risposte che si ottengono. Risultato finale? La reciprocità. Parola derivante dal latino e composta da recus (indietro) e procus (avanti). Ciò che torna una volta che si dà qualcosa. A volte è tutto, altre volte addirittura niente. Ma poco importa. L’esperienza umana valorizza il tentativo, la motivazione, la crescita. Provarci, sempre. Ciò che si rischia non ha valore rispetto a ciò che si può guadagnare.
Rieccolo, il filo della città che avvolge Roma e tocca anche le corde della contemporaneità. Quelle di un mondo complesso e stravagante ma pur sempre affascinante. Che necessita di essere attraversato, conosciuto, compreso. Allora sì, ognuna delle sei storie è come un’uscita del Grande Raccordo Anulare di Roma. O un’entrata. Dipende dai punti di vista. Un’uscita da sé stessi. Dal proprio quartiere, dalla routine, dall’egocentrismo. Un’entrata nell’anima del prossimo. Nella conoscenza del mestiere, della personalità, del carattere. Dell’essere umano. Tanto vicino quanto sconosciuto. Che paradosso. Anzi, forse il filo della città non è o l’uno o l’altro. Il filo della città è un’uscita dalla prima persona singolare che conduce alla prima persona plurale. Contemporaneamente. “Storie di tutti per ripartire” era il titolo del primo articolo di questa rubrica. Dall’io al noi. All’improvviso, senza regole. Con umanità.
L’Osservatore Romano – 17/07/2021