Trentottomila. È il numero dei docenti a Roma. Sono spalmati tra scuola dell’infanzia, primaria, secondaria di I e II grado. Ma negli istituti della Capitale oggi mancano all’appello più di duemila insegnanti. L’analisi di un quotidiano nazionale ricorda che bisogna far fronte sia ai pensionati (sono poco più di un migliaio) sia a chi usufruisce della cosiddetta “quota 100” (circa duemila). A ciò si aggiungono anche problemi strutturali: ad esempio, l’ultimo rapporto di «Cittadinanza», segnala che, nel Lazio, l’82% delle scuole non ha un certificato di agibilità e l’89% non è adeguato a norme antisismiche. Per indagare sull’affidabilità dei numeri, bisogna ascoltare i protagonisti. Dunque, dopo le impressioni dei ragazzi, questa settimana si cambierà lato dell’aula. Ci si rivolgerà direttamente ai professori. Come sta andando l’inizio del nuovo anno scolastico?
«È il primo anno che insegno a Roma» esordisce Fabio Canessa, professore di italiano e latino presso il liceo Virgilio «le impressioni iniziali sono state ottime. È vero, lo stato d’animo è ancora determinato dalle mascherine. Ad esempio, noi dobbiamo fare lezione con le finestre aperte. Sul Lungotevere ci sono i rumori del traffico e dei cantieri in sottofondo. Se a ciò aggiungiamo l’uso della mascherina, risulta difficile farsi capire. Ma queste difficoltà sono annientate dall’euforia degli studenti. Siamo tutti felicissimi di essere tornati in presenza. Da questo entusiasmo quotidiano bisogna ripartire. Dal rafforzamento delle emozioni. Noi impariamo attraverso le emozioni. Questo processo, con la didattica a distanza, si era interrotto. I mezzi che usavamo erano asettici. L’apprendimento si era indebolito e i ragazzi hanno perso molto. Soprattutto i più piccoli. Credo anche che, da educatori, abbiamo rischiato di perdere una certa credibilità nei confronti dei ragazzi. Infatti, se prima li invitavamo a staccarsi dai telefoni, con la pandemia li abbiamo esortati a stare a casa e sfruttare la tecnologia. Di fronte al pericolo della dipendenza subentra il ruolo della scuola. La sua rivincita come educatrice. Dobbiamo essere in grado di comunicare non solo nozioni, ma soprattutto valori. Suscitare nello studente gli stati d’animo adatti a scoprire e coltivare il proprio talento. Al di là delle competenze e delle conoscenze. La scuola serve ad altro. A scoprire vocazioni, a nutrire la curiosità».
Accanto al professor Canessa c’è sua moglie, Elena Pecchia, professoressa al liceo Kennedy: «La ricetta per realizzare tutti questi obiettivi è, secondo me, il ritorno al francescanesimo. Alle cose essenziali. Non si tratta di griglie per la valutazione o di power point. Si parla di nozioni fondamentali e metodi basilari. Di domande. Della ricerca delle risposte. I ragazzi vogliono sapere cos’è l’amore, la morte, come ne parlano gli autori… per comprendere tutto ciò non serve altro che un quaderno, una penna e la presenza. Non solo in classe, ma anche attraverso gite e campi scuola. Sono momenti preziosi e noi vogliamo tornare a viverli. Certo, bisogna pensare anche ai problemi dovuti alla pandemia. Nel mio istituto, ad esempio, i ragazzi non praticano più la DAD , un metodo che gli permetteva di cambiare aula a seconda delle materie da seguire. Tra sanificazione e distanziamento, ciò non è più possibile. Ma, di fronte al loro sconforto, ho ricordato, soprattutto alle mie alunne, la situazione delle ragazze oggi in Afghanistan. Il nostro non sarà il migliore dei mondi possibili. Ma dobbiamo apprezzarlo. Dobbiamo imparare a valorizzare ciò che abbiamo. A partire dalla didattica in presenza. Il ruolo dei docenti si gioca tutto qui».
In molti istituti romani non sono mancati i problemi organizzativi. Lo ricorda Giuseppe Stinca, professore di religione e rappresentante sindacale presso il liceo Mamiani: «Anche in un liceo importante e organizzato come il nostro, i problemi sono tanti. Ad esempio, fino a due giorni prima dall’inizio delle lezioni non sapevamo a che ora entrare a scuola. Gli orari d’ingresso sono stati stabiliti dall’Ufficio scolastico regionale e dai responsabili dei trasporti pubblici. Ma, in questo processo, c’è stato un notevole ritardo. Ciò ha significato organizzarsi male e comunicare all’ultimo. Un altro problema sono le cattedre vacanti. Le assunzioni annunciate l’anno scorso non hanno avuto seguito, se pensiamo che i 2/3 dei partecipanti al concorso straordinario sono stati bocciati. Il concorso ordinario è stato rimandato sine die. Il risultato finale è che, oltre alle cattedre, mancano anche le supplenze. Infine, ci sono problemi organizzativi. Il Mamiani ha 45 classi. Ciò non significa che abbia 45 aule adatte a tutte le nuove esigenze logistiche. Così, abbiamo trasformato la biblioteca e l’aula docenti in nuove aule. E nessuno di noi professori ha più un minimo punto d’appoggio. Questa non è una situazione normale. La sfida di questo anno scolastico sarà migliorare ogni piccolo aspetto. Per noi e per gli studenti. Per la nostra serenità.»
Quando si parla di scuola, un altro fattore importante è costituito dai metodi di apprendimento, che sono cambiati non solo a livello tecnologico ma anche umano. «La didattica a distanza è stata draconiana — osserva Ennio Sanzi, docente di italiano, latino e greco presso il liceo Albertelli — gli studenti bravi sono migliorati e quelli deboli ne hanno risentito. Al nostro liceo abbiamo cercato di invertire questa tendenza. Ci siamo impegnati affinché nessuno restasse indietro. E non è stato facile. Perché l’Albertelli si trova a due passi dalla stazione Termini e ospita ragazzi di ogni estrazione sociale. Questo processo richiede tempo: è iniziato lo scorso anno con le difficoltà della didattica a distanza, ma deve proseguire anche quest’anno. Vogliamo comprendere i ragazzi e intraprendere progetti mirati a recuperare tutto ciò che hanno perduto. Sul piano quantitativo e, soprattutto, su quello qualitativo, sociale, empatico. Per raggiungere questo obiettivo, la didattica in presenza è un enorme vantaggio a nostra disposizione. Questo è l’anno della forza propulsiva che va oltre i limiti oggettivi della mascherina e del distanziamento. E che mira a sollecitare la curiosità intellettuale. A recuperare una certa alchimia che solo la socializzazione può dare. Non solo nel rapporto fra docenti e studenti. Ma anche nel rapporto fra docenti stessi. Il covid lo aveva completamente interrotto».
Insomma, se da parte degli studenti, la scorsa settimana, erano state date risposte più incerte, oggi il registro è cambiato. È bastato cambiare prospettiva? Spostarsi dai banchi alla cattedra? Difficile a dirsi. Indubbiamente, nelle scuole c’è ancora bisogno di dialogo. Lo hanno ricordato anche i professori. E la presenza non potrà fare altro che migliorare questa grande necessità.
L’Osservatore Romano – 25 settembre 2021