Visionario incallito, realista non pentito, semplice ma profetico, con una mela nella mano destra e un’idea in quella sinistra. Si chiamava Steve Jobs. Un uomo paradossale quanto geniale. Sono passati dieci anni dalla sua morte. Era il 5 ottobre 2011. Il fondatore della Apple aveva 56 anni e l’Associated Press diffondeva l’annuncio della scomparsa: un tumore neuroendocrino al pancreas, scoperto casualmente nel 2003.
Conferenze, documentari, seminari. I modi per spiegare Steve Jobs sono stati e saranno innumerevoli. Tuttavia, le persone che meglio lo hanno conosciuto sono giunte ad una conclusione: la creatività è incomprensibile. Dev’essere contestualizzata nella quotidianità. Nei problemi, nelle intuizioni, negli errori. E di errori persino uno come Jobs ne ha commessi.
Ad esempio, dopo aver fondato Apple nel 1976, Steve Jobs fu costretto ad allontanarsene nel 1985. Chi guidò questa operazione? John Sculley, precedentemente voluto e ingaggiato proprio da Jobs. Non solo un danno d’immagine, ma anche un’umiliazione: la Apple, negli anni successivi, avrebbe versato in grave difficoltà. Così, Steve Jobs, con l’obiettivo di «realizzare il miglior computer al mondo», fondò NeXT. Ma l’iniziativa fallì ben presto. I computer non ottennero il successo auspicato. Jobs si dedicò ai software fino al 1996, anno del suo ritorno nella storica sede Apple di Cupertino. Qui, agli errori professionali se ne aggiunsero alcuni più «tecnici». Basti pensare al Power Mac G4 Cube: un computer tanto bello da essere esposto al Museum of Modern Art di New York, ma così costoso da essere rimasto praticamente invenduto. Anche il mouse «a forma di dischetto da hockey», venduto con il primo iMac e odiato persino dai fan più accaniti. Avendo una forma rotonda, gli utenti non riuscivano ad indirizzare il cursore nel punto desiderato dello schermo.
«A volte, quando si innova, si sbaglia — diceva Jobs — meglio ammetterlo subito e rimettersi al lavoro. Bisogna guardare avanti, sempre». Umiltà, onestà, perseveranza. Ma questa storia non insegna solo grandi valori. Questa storia insegna anche il metodo per risolvere gli errori. Si chiama semplicità. E Steve Jobs l’ha applicata (quasi) sempre. Le riunioni dalla durata brevissima e con poche persone. La scatola che contiene i dispositivi Apple: pulita, minimalista, ma capace di generare attesa, di sorprendere. A differenza di tutti gli altri telefoni, gli iPhone hanno sempre avuto solo un pulsante. Ora i tasti non ci sono più. In fin dei conti, zero è l’unico numero più semplice di uno. Ma questo Steve Jobs già lo sapeva.
L’Osservatore Romano – 8/10/2021