Appena iniziata la videochiamata coi media vaticani, padre Arnaldo Negri ruota la fotocamera del telefono: «Ecco il cortile del nostro asilo parrocchiale. Ora è innevato perché a Miyoshi, città della prefettura di Hiroshima, sud del Giappone, ci sono pochi gradi sotto lo zero. In questi giorni ci alziamo alle cinque e mezzo del mattino per spalare la neve e per consentire ai bambini di accedere all’edificio in sicurezza».

In Giappone le parrocchie sono state fondate soprattutto negli anni Cinquanta dello scorso secolo e quasi tutte prevedevano un asilo. «Oggi le famiglie ci iscrivono i figli — spiega padre Arnaldo —, ma non si tratta quasi mai di persone cattoliche. Dobbiamo fare i conti col fatto di essere minoranza. I cristiani sono l’1,5 per cento della popolazione e, su 124 milioni di abitanti, i cattolici sono poco più di 400.000. Numeri bassi dovuti non solo a secoli di persecuzioni contro i cristiani che, avviate nel 1587, fino alla restaurazione Meiji di metà Ottocento hanno impedito ai sacerdoti di entrare nel Paese, alimentando i kakure kirishtian, i cristiani nascosti. Ad aver ulteriormente scristianizzato il Giappone ci hanno pensato due generazioni di consumismo sfrenato che, avviato nel secondo dopoguerra, è divampato dagli anni Novanta col progresso tecnologico e col commercio internazionale».

Proprio in quel periodo padre Arnaldo Negri, classe 1961, originario di Legnano, missionario del Pontificio istituto missioni estere (Pime), arriva nel Sol Levante: «Era il 1992. Studiai due anni giapponese, nel gennaio 1995 andai a Kobe, poi a est di Hiroshima, a Mihara, a Fukuyama e di nuovo a Mihara». Sebbene sia piccola, la realtà in cui opera padre Arnaldo è esemplare per comprendere le dinamiche sociali e culturali di un Paese in apparenza accogliente ma che, troppo spesso, «fa di tutto per non far entrare gli stranieri – osserva il missionario – l’immigrazione clandestina è reato, per venire a lavorare qui bisogna già avere un contratto con un’azienda che faccia da garante, un lavoratore straniero non può far arrivare i propri familiari per i primi otto anni di permanenza, la discendenza da giapponesi immigrati all’estero è valida solo fino alla terza generazione. Se si dimostra di aver lavorato e pagato le tasse, dopo cinque anni si può richiedere un visto permanente. Altrimenti, quando il visto scade e si resta nel Paese in maniera illegale, si viene arrestati, interrogati e processati. Dopo l’eventuale condanna, si viene mandati nei centri di migrazione – come quello di Nagasaki – per essere rispediti a casa».

Padre Arnaldo racconta che a Mihara ci sono filippini e sudamericani, in particolare peruviani e brasiliani: «Molti sono parenti di giapponesi emigrati all’estero, alcuni sono venuti per turismo e sono rimasti in modo illegale, altri sono “generi adottivi”. In Giappone tantissime donne decidono di restare single. Per garantire la continuità dell’azienda familiare e per non disperdere la proprietà fra gli eredi, più famiglie decidono di adottare un adulto straniero e di darlo in sposa alla propria figlia. Un mukoyōshi è il marito di una figlia che viene adottato dalla famiglia giapponese di lei e ne acquisisce il cognome. Spesso provengono proprio dall’America Latina».

Stare vicino a questa gente e favorirne l’integrazione in una società spesso diffidente: ecco la missione di padre Arnaldo. «Non è facile perché non posso contare su alcuna dimensione comunitaria. La parrocchia più vicina alla mia dista cinquanta chilometri. Le persone straniere abitano lontano e sono io a muovermi per andare da loro. Una volta a settimana percorro quasi ottanta chilometri per andare a trovare una mamma e suo figlio che, battezzati in Brasile, sono arrivati in Giappone senza alcuna educazione religiosa. Lo stesso faccio con un bambino nato da madre filippina e padre giapponese, prossimo alla prima comunione. È un catechismo diverso, individuale. Che deve tenere conto delle differenze culturali e linguistiche, tanto pesanti da sfociare spesso in abusi e dipendenze. Problema non da poco in Giappone, dove è reato sia vendere droga sia drogarsi. Avendo imparato il portoghese, sono stato nelle prigioni in veste di inviato del consolato brasiliano oppure ho fatto da traduttore con la polizia locale».

Perché l’obiettivo ultimo di padre Arnaldo è proprio quello di creare relazioni in una società troppo spesso distratta e centrata sul singolo individuo: «Tante mamme giapponesi mi raccontano di avere figli hikikomori, rinchiusi nella loro camera senza alcuna prospettiva e interessati solo a giocare al computer. Sono disperate. Il fardello del consumismo in Giappone è pesante. Ma questa è un’altra storia. Ora devo andare a dormire, domani dovremo spalare altra neve».

L’Osservatore Romano – 08/02/2025