Prima promuove la legge marziale per avere pieni poteri contro l’opposizione in Parlamento, poi l’Assemblea vota contro e lui revoca la legge. Così facendo, il presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol fa e disfa non solo il suo destino, quanto soprattutto la credibilità e l’immagine della politica sudcoreana.
In un discorso trasmesso in diretta nazionale la sera del 3 dicembre, Yoon ha dichiarato di voler imporre la legge marziale «per salvaguardare una Corea del Sud libera dalle minacce poste dalle forze comuniste della Corea del Nord e per eliminare gli elementi anti-statali» identificati nell’opposizione che, dopo le elezioni dello scorso aprile, detiene complessivamente 192 seggi su 300 nell’Assemblea Nazionale. La denuncia è chiara: l’opposizione sta approfittando della maggioranza per mettere sotto accusa membri del governo e bloccare leggi, in particolare quella di bilancio.
Eppure, tutti i partiti sudcoreani, a partire dai conservatori del People Power Party (PPP) che lo stesso Yoon rappresenta, sono contrari. Han Dong-hoon, presidente del PPP, critica la legge definendola «sbagliata» e dicendo che si opporrà «insieme al popolo». Fino a notte fonda, nei pressi di piazza Gwanghwamun, nonostante i gradi vicino allo zero, migliaia di cittadini protestano contro la scelta presidenziale. Yoon è già un presidente impopolare: a novembre aveva un consenso pubblico che rasentava il 20 per cento. Dall’altro lato, il Partito Democratico, opposizione progressista, convoca una riunione d’emergenza.
La legge marziale è prevista dalla Costituzione, ma è riservata a casi di guerra o grave emergenza nazionale. Le giustificazioni offerte dal Presidente appaiono sin da subito politicizzate e contrarie alla legalità. Così, quando il Parlamento si riunisce a notte fonda, i 190 presenti – non tutti i parlamenti riescono a entrare perché i militari già presidiavano il palazzo, secondo le disposizioni del capo di stato maggiore dell’Esercito Park Ansu – votano in modo unanime e bipartisan contro la legge marziale. Poche ore dopo Yoon torna sui propri passi e revoca la legge, ma non basta: oggi sei partiti di opposizione hanno presentato la richiesta di impeachment per Yoon e per il ministro della Difesa Kim Yong-hyun. Perché, in poche ore, è stata messa a repentaglio la credibilità di un Paese che, sebbene abbia inaugurato la democrazia solo nel 1992, è dotato di istituzioni forti, di un sistema giudiziario indipendente e di una società civile attiva.
Certo, l’atto di forza di Yoon non avviene in un contesto sociale pacifico. Si pensi al calo demografico (la Corea del Sud ha il tasso di fertilità più basso al mondo, si parla moltissimo di passeggini ma per i cani), allo sciopero dei medici che ha creato enormi problemi alla sanità, alla crescente insoddisfazione verso la democrazia, alle disparità percepite dalla popolazione femminile o al 72 per cento degli intervistati di un sondaggio di Gallup favorevoli allo sviluppo dell’arma nucleare.
Sulla politica interna pesa poi la politica estera. Russia e Corea del Nord stanno rafforzando i loro legami. Durante la campagna elettorale americana Donald Trump ha definito la Corea del Sud una «macchina per soldi» minacciando di ritirare le truppe americane a meno che Seoul non aumenti il contributo economico. Mentre la Cina resta un’incognita, il Giappone, oggi alleato, è lo storico nemico che ha invaso la penisola coreana dal 1910 al 1945. In un Indo-Pacifico sempre più conflittuale, questo auto-colpo di Stato crea un precedente nella storia recente del Paese, lasciando aperta la possibilità di ulteriore polarizzazione politica e di nuove tensioni nella penisola coreana (Pyongyang non ha finora commentato).
La votazione per l’impeachment di Yoon e per il ministro della Difesa Kim Yong-hyun potrebbe tenersi il 6 o il 7 dicembre e richiederà 200 voti su 300. Poi la Corte costituzionale sarà chiamata a esprimersi e – in caso di rimozione di Yoon – nuove elezioni dovranno essere convocate entro 60 giorni. Nel frattempo, Yoon dovrebbe essere sostituito dal primo ministro Han Duck-soo, indipendente, ex ambasciatore negli Usa ed ex ministro delle Finanze. Ma la vera speranza è che la dimostrazione di unità sociale, politica e culturale del Paese contro la forzatura di Yoon sia la prima grande azione per una rinascita sudcoreana.
L’Osservatore Romano – 4/12/2024