Siamo vittime o complici di una nuova epidemia di solitudine? Come mai rifugiarsi nel mondo virtuale significa sempre più rinunciare alle relazioni reali? Per rispondere faremo un salto dall’altra parte del mondo, dove le tecnologie avanzate e l’uso dei social sono parte integrante dell’esistenza quotidiana eppure, nonostante ciò o forse proprio per questo motivo, la disconnessione dalla realtà sembra all’ordine del giorno.

Prima tappa il Giappone, dove da qualche anno spopola un nuovo fenomeno: i “solo katsudo” o “solo katsu”, coloro che svolgono “attività in solitaria”. Questa pratica consiste in una forma di distanziamento consapevole e riguarda le nuove generazioni che preferiscono isolarsi per svolgere attività che normalmente richiederebbero un’interazione con l’altro. La pratica ha sviluppato negli ultimi anni un’accezione positiva perché, a detta di chi la segue, è in grado di alleviare la pressione sociale, spesso associata alla ricerca di un partner per la vita o alla paura di condividere aspirazioni e bisogni.

Eppure, la realtà racconta ben altro: in Giappone solo un liceale su cinque ha dato il suo primo bacio, dato più basso mai registrato in cinquant’anni. Questo Paese sta attraversando la peggiore crisi demografica della sua storia, con nascite ai minimi storici e diminuzione di matrimoni. Non solo: secondo i dati dell’Agenzia governativa per l’Infanzia e le Famiglie, circa 1,5 milioni di nipponici (principalmente tra i 16 e i 64 anni) scelgono di vivere in completo isolamento. Osservato per la prima volta in Giappone negli anni Novanta, il fenomeno degli “hikikomori” riguarda soggetti che si rinchiudono nelle proprie abitazioni e trascorrono la maggior parte del loro tempo su internet. Oltre a organizzazioni no-profit o semplici spazi di incontro per la reintegrazione degli “hikikomori”, nel 2020 il Ministero della Salute locale ha sponsorizzato iniziative per contrastare il fenomeno e supportare chiunque ne sia afflitto.

In Corea del Sud, altro Paese tra i più connessi al mondo, le cose non vanno diversamente. Dall’ultima rilevazione del Ministero della parità di genere e della famiglia, che nel 2024 ha coinvolto oltre 1,2 milioni di giovani in età preadolescenziale, emerge come tra le fasce di età più a rischio di dipendenza da internet ci siano studenti delle scuole elementari e medie. La piattaforma più utilizzata dai sudcoreani, YouTube, registra il 92 per cento dei propri utenti tra i 10 e 19 anni. Qui in media nel 2023 l’utente medio sudcoreano ha trascorso circa 49 ore al mese. Per far fronte a questa emergenza sono nati specifici campi in cui bambini e adolescenti con dipendenze da internet vengono riavvicinati al mondo reale. I partecipanti sono coinvolti in attività sportive o corsi di artigianato per imparare a riconoscere fonti alternative di felicità.

Perché in gioco c’è il modo in cui ci si pensa connessi col tempo e con lo spazio che abitiamo. E, ancor più, il modo in cui si crede di poter conoscere l’altro. In questo senso, il National Bureau of Statistics della Repubblica Popolare Cinese ha diffuso un documento sul rapporto dei cinesi col tempo. Emerge che il 26,3 per cento della popolazione si impegna in “interazioni sociali” e che quest’attività ha una durata media giornaliera di 18 minuti. Al contrario, coloro che utilizzano Internet superano il 90 per cento e trascorrono in media 5 ore e 37 minuti al giorno davanti allo schermo.

Le conseguenze sociali, specie sui più giovani, sono evidenti. A giugno in Cina la disoccupazione giovanile ha raggiunto il record del 21 per cento, per poi scendere al 17. Calano i matrimoni — 943.000 in meno nei primi nove mesi del 2024 — e le nuove nascite — l’anno scorso l’India ha superato la Cina come Paese più popoloso al mondo — parallelamente a una crisi immobiliare e a un calo dei consumi .

Ma la tecnologia non è la panacea di tutti i mali. Piuttosto, essa pare lo strumento perfetto dietro cui nascondere i tratti di una società sempre meno interessata alla vita comunitaria. Un individuo che vive sui social non pensa di essere isolato. I suoi contatti col mondo ce li ha. Eppure, non intende unirli. Non vuole “cum-nectere”, legare insieme, formare un tutto. Non è educato a farlo, non ne vede i benefici. Il dramma della disconnessione, con le sue conseguenze sociologiche ed economiche, sta tutto qui.

L’Osservatore Romano – Guglielmo Gallone e Valeria Torta – 12/11/2024