Tutto, Alain accumula di tutto dentro i venti metri quadri scarsi della sua abitazione: fotografie, giornali, cicche di sigarette, cravatte, scarpe, libri, bombolette di schiuma da barba. Il buio oltre la porta nasconde le crepe nel muro, il pavimento è incrostato, il soffitto umido, lo sciacquone rotto, l’acqua corrente va e viene, le padelle sono ammassate nel lavabo. Le finestre sono costantemente chiuse ma il freddo penetra dagli spifferi. La porta è serrata ma quell’odore, forte e sgradevole, quella puzza di ricordi felici e destini crudeli, non fa che fuoriuscire dall’abitazione.
Siamo a Saint-Denis, nord di Parigi, dove quella di Alain non è una storia isolata. Secondo il rapporto diffuso quest’anno dalla fondazione Abbé Pierre, in Francia oltre 4 milioni di persone vivono in mal logées, cioè o sono senza domicilio o vivono in alloggi fatiscenti e a carico di terzi.
La situazione non è così diversa in Italia: dal rapporto diffuso da Caritas Roma lunedì 13 novembre emerge che, solo nella «città delle disuguaglianze», sono state assistite 411 persone a livello domiciliare e, di queste, 257 sono affette da «fragilità estrema, il cosiddetto barbonismo domestico». Anziani, disabili, rifugiati, giovani hikikomori, soggetti indebitati, persone povere o colpite dalle crisi economiche.
È tra loro che si nascondono i barboni domestici. No, questo termine non è un ossimoro. Se la parola clochard in francese ha origine dal termine clocher — “campanile” — e ricorda il momento in cui i poveri attendevano il suono della campana che segnava la chiusura del mercato per raccogliere qualche avanzo di cibo, oggi il mendicante non è solamente chi vive per strada.
Proprio questo cambiamento è al centro del numero di ottobre de «L’Osservatore di Strada» — il mensile de «L’Osservatore Romano» fatto per e con i poveri — dedicato al barbonismo domestico ed esemplare per comprendere chi è un barbone domestico. Come emerge dal termine, questi soggetti hanno una casa di proprietà, quindi hanno un capitale, ma non hanno più un reddito sufficiente per vivere. I motivi possono essere tanti: licenziamento, fallimento, divorzio, crisi familiari, solitudine, drammi psicologici, dipendenze, reddito di lavoro o di pensione scarso.
Insomma, anche se una persona ha una casa che vale centinaia di migliaia di euro, non può andare a fare la spesa al supermercato. Il punto centrale e innovativo di questo fenomeno sta proprio qui: se da un lato abbiamo i giovani che hanno un reddito ma non hanno soldi da parte per ottenere un mutuo per l’acquisto della casa, dall’altro lato ci sono adulti o anziani con una casa ma senza reddito sufficiente per campare.
Destini diversi di generazioni diverse si ritrovano accomunati da un interrogativo: perché la nostra società si disinteressa di tutto ciò? Come è possibile che, la maggior parte delle volte, neanche i vicini di casa osano avvicinarsi ai barboni domestici? In apparenza, essi sembrano rappresentare l’opposto della società contemporanea, troppo spesso distratta, incapace di stupirsi, concentrata sul consumo. Il mito della produttività si basa sulla convinzione che chi soffre di un disturbo mentale non ha capacità, abilità, competenze e, dunque, è inutile, va scartato.
Eppure, facciamo un passo indietro. Si pensi a parole come solitudine, crisi, drammi, dipendenze, vuoto che vengono usate per parlare del barbonismo domestico: Ma esse non fanno forse parte di tutti noi? Quante volte capita di essere incapaci di affrontare una crisi? Viviamo la solitudine come solitude o come loneliness, cioè come isolamento? Cosa si fa pur di nascondere il dolore? Questo fenomeno non è oggi così diffuso e ben descritto da associazioni come la Caritas proprio perché legato alla nostra società? In effetti, ciò che più colpisce quando si parla di barbonismo domestico è l’assenza: le persone che abitano appartamenti ridotti a una sorta di discarica vivono in isolamento totale. È come se fossero internati, invisibili al mondo. Ecco perché quell’enorme quantità di oggetti è lì, dentro le mura di casa: per colmare la solitudine, per nascondere il dolore.
Inevitabile pensare a tutti gli sforzi che ognuno di noi fa per colmare la solitudine. Secondo Apple, una persona sblocca il proprio smartphone almeno ottanta volte in un giorno: messaggi, videochiamate, giochi. Dal lavoro all’aperitivo fino alla palestra il passo è breve, pure se il traffico è tanto e la metro è affollata perché, come recitano fuorvianti frasi motivazionali su Instagram, «la solitudine è il male assoluto e per curarlo devi sempre stare in mezzo alla gente». Si finisce così per nascondere il dolore e, coi social network, è ormai abitudine rispondere «tutto bene» a un «come va?» anche quando così non è.
Quando ci assale un dolore l’istinto porta quasi sempre a cercare una voce amica, un supporto. Cosa succede se l’altro non c’è? Emerge così un ulteriore tassello: la crisi della collettività. La politica, i centri anziani, i quartieri, la parrocchia e tantissimi altri spazi di dibattito civico e culturale sono ormai sempre più vuoti. Le persone si sentono sole. Spesso l’idea di vivere in compagnia perché in spazi affollati e trafficati non è che un’illusione. La Caritas di Roma conferma che «lo scarto del vivente si palesa soprattutto negli scenari metropolitani, dove la forza della bruttezza nelle tante borgate, mediocre, scadente, ordinaria nel migliore dei casi, si misura nell’inerzia, nel tempo immobile, nella politica assente». Ed è qui, nelle bolle delle periferie, che tende a crescere la povertà e la disoccupazione e quindi la rabbia individuale e l’odio per la società.
Certo, questa situazione non affligge solo i poveri. Tuttavia, complica tanto l’inserimento sociale quanto la sopravvivenza delle persone deboli perché esse non hanno alcun punto di riferimento sociale cui rivolgersi.
Ancor più, quando si parla di barbonismo domestico si palesa la crisi dell’istituzione comunitaria per eccellenza: la famiglia. Se in casa si costituiscono le relazioni primarie, per queste persone la casa è sì un rifugio ma anche una prigione dove, troppo spesso, si è intrappolati dal passato.
Non può non venire in mente il termine «malinconia» usato dal Censis per descrivere la società italiana nel 2022: per un barbone domestico l’oggetto del passato, anche se di scarso valore, diventa fondamentale perché fa lavorare la memoria e riporta in vita i tempi ormai andati in cui tutto, magari, andava bene.
Nella maggior parte dei casi la sofferenza psichica viene medicalizzata, la cura si riduce alla somministrazione di farmaci e terapie. Eppure, ciò non basta. Lo si intuisce da queste righe e da un ragionamento più ampio sullo stato della società contemporanea: la crisi antropologica riguarda tutti, nessuno escluso. E finché non ci si farà carico di questo disorientamento individuale e di questa disgregazione collettiva si resterà incapaci di costruire e abitare gli spazi comunitari. Continuerà dunque il calo demografico, la povertà e l’isolamento dei deboli, la società sarà frammentata e l’individuo incapace di comprendere le proprie passioni e di utilizzare i suoi talenti. Una risposta concreta al fenomeno del barbonismo domestico non può prescindere da un’analisi interna alla società, interna a noi stessi.
L’Osservatore Romano – 27/11/2023