Sono almeno due gli insegnamenti che si possono trarre dalla politica estera di John Fitzgerald Kennedy, presidente degli Stati Uniti dal 20 gennaio 1961 al 22 novembre 1963.
Il primo riguarda l’utilizzo dell’intelligence, tema di stretta attualità visto il dibattito sull’incapacità delle forze di difesa occidentali di prevedere i conflitti con cui oggi ci si ritrova a fare i conti — Gaza e Ucraina su tutti. L’esperienza di Kennedy racconta di un fallimento e di un successo.
Da un lato, l’invasione della Baia dei Porci, avviata il 15 aprile 1961 con un bombardamento operato da aerei americani mascherati da velivoli cubani e pilotati da esuli.
Obiettivo di Washington era impedire che un Paese latino-americano aderisse al blocco comunista. Secondo gli esperti della CIA e del Pentagono, la popolazione contadina cubana era ostile a Castro e avrebbe accolto con entusiasmo l’invasione degli esuli spinti dal governo americano. Tuttavia, l’operazione fallì appena due giorni dopo l’avvio. La popolazione si dimostrò vicina al regime comunista, gli esuli furono arrestati e Fidel Castro rafforzò la sua popolarità agli occhi del mondo intero. Kennedy sostituì immediatamente Allen Dulles, capo della CIA in quegli anni, ma lo smacco — peraltro avvenuto nel “cortile di casa” — fu evidente.
Il presidente democratico riuscì a recuperare popolarità con il suo atteggiamento cauto e pragmatico di fronte alla crisi dei missili, avvenuta nell’ottobre 1962. In soli tredici giorni, Kennedy dovette ragionare su come rispondere all’iniziativa del presidente sovietico Nikita Krusciov di costruire rampe di lancio per missili a Cuba e su come evitare un’escalation nucleare. Se l’impresa riuscì, fu soprattutto merito del coordinamento tra la presidenza e il National Security Council.
Il 16 ottobre 1962 Kennedy fu informato del piano sovietico grazie a una ricognizione effettuata da un aereo U2 che rivelava la costruzione delle rampe. Acquisita l’informazione, bisognava calarsi nei panni del nemico: i sovietici volevano obbligare gli americani a intervenire, li volevano costringere a trattare o intendevano provocarli per capire fino a dove fossero disposti a spingersi? Infine, occorreva capire che fare. E la soluzione di lanciare un ultimatum a Krusciov si rivelò efficace per due motivi. Il primo: sarebbe toccato ai sovietici decidere se scatenare la guerra. Poi, emerse l’assenza di tattica di Krusciov, che non poteva non aspettarsi una reazione americana e che aveva fatto prevalere l’ideologia sulla strategia.
Da questi due esempi si riesce a capire cosa è e quanto conta l’intelligence: un’attività informativa tesa ad acquisire conoscenze su situazioni estere e, su questa base, a produrre informazioni. Nel mezzo, esiste un processo fatto di raccolta di notizie, coordinamento, interpretazione, analisi e valutazione che, a volte, può richiedere attività non ordinarie come disinformazione, spionaggio o ingerenza.
Certo, tutte le agenzie di intelligence falliscono, anzi si potrebbe azzardare che il fallimento è il prezzo da pagare per chi svolge una professione basata sull’interpretazione di informazioni nascoste, incomplete, talvolta ingannevoli e, perdipiù, legate a un attore straniero. Eppure, c’è una parola che, in tutto questo processo, vale più di tutte le altre ma che oggi risulta essere la più assente: interpretazione. La mole di dati che le agenzie di intelligence possono raccogliere è infinitamente maggiore rispetto agli anni Sessanta, ma siamo sicuri che si è anche capaci di interpretare tutto ciò? Se la tecnologia fornisce gli strumenti necessari, il pensiero umano è davvero al passo con un cambiamento simile? Esistono ancora leader capaci di distinguere tra strategia e tattica, di ascoltare i tecnici e fare una sintesi, dotati di lucidità e lungimiranza, educati al pensiero?
Dopo la crisi dei missili, nell’agosto 1963 Kennedy e Krusciov approvarono la costruzione della linea rossa, la telecomunicazione diretta tra Casa Bianca e Cremlino. Anche in questo caso, la decisione non può essere limitata alla necessità di accorciare i tempi di risposta in casi di crisi. Piuttosto, essa va inquadrata nella necessità di comunicazione col nemico, nella strategia della «coesistenza pacifica» e nella legittimazione reciproca tra est e ovest che ha caratterizzato la guerra fredda. No, col tempo si è capito che con bipolarismo non s’intendeva contrapposizione totale tra superpotenze ma controllo del rispettivo campo.
Lo dimostra, in primis, la frase detta da Kennedy al consigliere per la Sicurezza nazionale Walt Rostow nel luglio 1961 di fronte alla fuga di oltre trentamila berlinesi dell’est nella parte ovest della città, amministrata dalle potenze occidentali: «Krusciov sta perdendo la Germania dell’Est. Non può permettere che ciò accada. Se la Germania dell’Est crolla, lo stesso accadrà alla Polonia e a tutta l’Europa orientale. Dovrà fare qualcosa per fermare il flusso di rifugiati, forse un muro. E non potremo impedirlo».
Quella di Kennedy non era impotenza, ma strategia: è sempre meglio trarre lezioni dalla guerra di altri che dalla propria. Ecco perché conta avere un nemico. Ecco perché il 13 agosto 1961, quando il muro di Berlino venne eretto, Kennedy disse che «non è una soluzione magnifica, ma un muro è infinitamente meglio di una guerra».
Lo dimostra, infine, il discorso fatto da Kennedy all’American University di Washington il 10 giugno 1963, al termine del quale il presidente avrebbe annunciato l’avvio dei lavori per l’accordo sul divieto di test nucleari con Mosca: «Che tipo di pace cerchiamo? Non una pax americana imposta al mondo dalle nostre armi» o «semplicemente la pace per gli americani», bensì «una pace autentica per tutti gli uomini e le donne» capace di «evitare quegli scontri che portano un avversario a scegliere tra un’umiliante ritirata o una guerra nucleare».
Ecco il secondo insegnamento che si può trarre dall’esperienza di Kennedy: l’importanza di dialogare, fare autocritica, riconsiderare l’atteggiamento che si ha verso il nemico, quindi non umiliare lo Stato né odiare la popolazione. Temi che oggi valgono ancora di più sia perché il sistema mondiale non è più bipolare, sia perché ci ritroviamo nella «terza guerra mondiale a pezzi».
L’Osservatore Romano – 22/11/2023