Handem, sud di Stoccolma, capitale della Svezia: lo scorso 11 settembre un giovane di 13 anni è stato trovato morto, ucciso a colpi di arma da fuoco, secondo gli inquirenti a causa di un regolamento di conti fra bande locali. Negli stessi giorni un ragazzo di 15 anni è stato accoltellato ed è rimasto gravemente ferito durante una rissa di quartiere a Corbeil-Essonnes, sud di Parigi. A Caivano, vicino Napoli, Italia meridionale, all’interno della più grande piazza di spaccio d’Europa, sette minorenni e due maggiorenni sono stati arrestati con l’accusa di aver stuprato due cugine di 10 e 12 anni.

Eccola, la cronaca che va oltre i confini, alimenta la quotidianità e crea un binomio mostruoso: quello fra giovani e violenza. Che è sempre esistito, si dirà: da quanto tempo si sente parlare delle bande giovanili? In Francia la forma di violenza urbana più estrema, quella nelle banlieue, è scoppiata nel 2005, anno delle rivolte di Clichy-sous-Bois. In Italia i dati sugli istituti minorili sono persino calati col tempo: secondo il Rapporto Antigone, al 15 marzo 2023 negli Istituti Penali per Minorenni italiani erano detenuti 380 ragazzi, ma solo il 18,9 per cento di loro ha commesso reati contro la persona, mentre il 61,2 per cento ha commesso reati contro il patrimonio.

Eppure, il problema esiste e persiste. Lo dimostra il caso della Svezia dove, solo tra agosto e settembre, sono stati uccisi quasi una decina di giovani – scenario quasi inedito per un paese del nord Europa. A Madrid, nel febbraio 2022, sono stati dispiegati oltre 500 poliziotti tra parchi e metropolitane per contenere le aggressioni commesse da bande di minori. Che dire poi di Inghilterra e Galles dove, nonostante la soglia di imputabilità sia una delle più basse in Europa (dieci anni), il numero di giovani che ha commesso reati con l’uso del coltello è passato da 21.747 nel 2009 a 28.219 nel 2019. A Londra, secondo i dati della polizia, il numero di omicidi compiuti dagli adolescenti continua da anni a toccare nuovi record. Non si tratterà di bande giovanili, ma sorprende ugualmente il quattordicenne che, giovedì, in una scuola dell’Andalusia, è entrato in classe armato di due coltelli e ha aggredito cinque persone.

Le istituzioni sono consapevoli di questa situazione e, testimoni i dibattiti politici e sociali portati avanti negli ultimi mesi, stanno cercando di intervenire in vari modi: in Francia per combattere il bullismo sono stati introdotti dei corsi di empatia a scuola, in Italia si vuole rendere più facile il carcere per i minori, da anni in Germania si parla di ridurre l’età imputabile dei minorenni e in Inghilterra, riducendo i poteri della polizia, si propone di investire di più nei servizi giovanili che vadano dalla formazione alla salute.

Ma ormai la violenza pare insidiarsi con troppa facilità, tanto nella cronaca quanto nel linguaggio – basta leggere i commenti a certe notizie sui social –, tanto nei delinquenti quanto nelle persone comuni, perché il rischio di abituarsi, di non stupirsi più di nulla e, quindi, di ritenere normale una certa azione è costantemente dietro l’angolo. Troppi giovani covano la rabbia a causa del disagio sociale, della solitudine o della precarietà economica e trovano nell’impunità del reato un buon motivo per sfogarsi usando la violenza. No, non esiste alcuna giustificazione per gesti simili.

Tuttavia, se è vero che, come teorizzato dalla ricerca scientifica, «le bande giovanili tendono a svilupparsi durante i periodi di rapido cambiamento sociale e di instabilità politica» perché «funzionano come un’istituzione residua quando altre istituzioni non riescono a fornire un certo grado di ordine e solidarietà ai loro membri», sarebbe altrettanto necessario domandarsi come mai questo fenomeno stia prendendo il largo proprio oggi. Dove ha sbagliato la nostra società? Perché ci si ostina a raccontare un mondo che funziona, è iperconnesso, tutela e integra le minoranze, fornisce le stesse opportunità a tutti e professa principi democratici? Perché, nonostante i notevoli progressi fatti negli ultimi anni nell’accessibilità della formazione, il concetto di reato e l’idea della forza continuano ad attirare?

Basterebbe prendere l’identikit di un qualsiasi membro appartenente a una banda giovanile per accennare possibili risposte. Si tratta di individui – in prevalenza maschi – con un’età compresa tra i 15 e i 17 anni, afflitti da una situazione di marginalità o di disagio socioeconomico, che si riuniscono in gruppi privi di una struttura definita e non si dedicano allo spaccio bensì a risse, atti di bullismo e vandalismo.

Marginalità, disagio, assenza di leadership: no, dietro al fenomeno delle bande giovanili non c’è solo la violenza, c’è la crisi delle crisi, quella antropologica, e con essa tutte le conseguenze che ne derivano. Oggi la dimensione comunitaria pare appiattita, i vincoli etici vengono sì condivisi con la collettività ma sono stati individualizzati: esistono «i miei diritti, esiste il mio spazio, esisto io». L’essere umano è più individualista, ma non per questo è meno sociale e socievole, anzi: egli è consapevole che può realizzare la propria dimensione solo ed esclusivamente nella società, perciò non vuole né riesce a stare da solo, confonde la solitudine con l’isolamento – conferma che le conseguenze psicologiche del Covid-19 ce le porteremo dietro per anni – ed è alla costante ricerca di un rapporto perfetto col prossimo, capace di soddisfare i propri interessi e le proprie ambizioni. E se ciò non avviene, il nemico da evitare o da combattere diventa proprio il prossimo. Con l’isolamento, con la finzione, con la violenza.

Certi stati d’animo sembrano ancora più accentuati nei giovani per varie ragioni. Innanzitutto, mancano figure di riferimento. La famiglia, istituzione rappresentativa del senso di comunità, capace di trasmettere valori che vanno dall’educazione al rispetto fino all’amore, è in crisi. I litigi sono all’ordine del giorno, i divorzi sono in costante aumento, troppi paesi sono affetti dal calo demografico – da ultima la Corea del Sud –, dalle serie tv emergono esempi negativi mentre dai notiziari non mancano notizie di cronaca nera. Cosa può intuire un dodicenne da tutto ciò? Che è scontato non credere nella famiglia, un figlio è un peso ed è normale usare la violenza.

E allora la scuola cosa ci sta a fare? Dove non arriva la famiglia, arriva l’educazione, si potrebbe pensare. Ma è davvero così? Che ruolo ha l’educazione, attualmente, nei ragazzi? Ce lo siamo chiesti spesso su #CantiereGiovani, la rubrica de «L’Osservatore Romano» fatta per e con i giovani, e da tante risposte è emerso che la scuola non aiuta a capire la propria persona, le proprie passioni, il proprio ruolo nella società, ma nella maggior parte dei casi è solo uno dei tanti problemi da affrontare durante la giornata. Sono pochissimi i professori che ascoltano i ragazzi e ispirano quella fiducia e serenità necessaria a costruire un dialogo spontaneo e sincero. Oltre al voto non si va. Perché non esistono le persone, esistono gli alunni e «il programma da finire».

«Ai tempi nostri c’erano i comitati studenteschi e la politica», potrebbe protestare qualche adulto. Sì, appunto, ai tempi loro. Oggi le scuole di partito non esistono più, la politica è «per gli imbroglioni» e il contesto internazionale non è proprio dei migliori se si pensa alla pandemia, alla crisi economica e allo spettro della guerra che, da quasi due anni, aleggia in Europa. Come se non bastasse, proprio adesso scarseggiano le figure politiche capaci di convincere e coinvolgere, di incarnare il senso della leadership, di praticare quella che gli antichi romani chiamavano ars oratoria e di saper convertire le proprie parole in azioni concrete. I ragazzi non credono più in alcuna ideologia né tanto meno nel valore delle idee. Ciò non vuol dire che non abbiano idee, anzi. Piuttosto, non hanno luoghi in cui esprimersi né autorità capaci e desiderose di ascoltarli senza pregiudizi.

Troppi giovani finiscono dunque per pensare che vivere dietro una maschera sia la soluzione migliore. Certo, la società tecnologica nella quale siamo immersi sembra li stia viziando se si pensa al ruolo dei social network e ai progressi dell’intelligenza artificiale. È più facile mentire quando ci si nasconde dietro una tastiera e uno smartphone. Così, tantissimi contengono la rabbia, rispondono automaticamente «bene e tu?» a un «come stai?», smettono di entusiasmarsi, stanno sempre fuori di casa (si pensi alla Fomo, la Fear of missing out) o si rinchiudono nelle loro stanze per vivere nel mondo virtuale (si pensi agli hikikomori), finiscono per stare solo tra maschi o solo tra femmine, non si conoscono, non si dicono più «ti voglio bene» o «ti amo» ma sono ossessionati dal contatto fisico e dalle discoteche dove si balla senza parlare. E poi c’è chi si rifugia nella droga, nell’alcol e nella violenza.

Ed ecco che il quadro sociale, piuttosto desolante, si va a incontrare con l’identikit di un qualsiasi membro appartenente a una banda giovanile. Chi commette atti violenti, oggi, non è più solamente il ragazzo emarginato, l’escluso, lo straniero o il povero, il bullo o quello che viene da una cattiva famiglia. Queste distinzioni si sono azzerate e rendono ancor più difficile comprendere e tracciare il fenomeno.

Tuttavia, non ci si può arrendere. E se le istituzioni si stanno impegnando nel fornire risposte politiche, giuridiche e sociali, perché la chiesa non potrebbe pensare di fornire interpretazioni antropologiche, psicologiche e sociologiche di questi fenomeni? Perché ci si continua a domandare «come facciamo a far venire i giovani a messa?» e non «perché i giovani dovrebbero venire in chiesa?».

Oggi gli spazi sociali di un tempo non esistono più, gli oratori sono spesso vuoti, il confronto generazionale pare azzerato. E allora, di fronte all’incremento della violenza giovanile, alla crisi della famiglia, alle delusioni del mondo scolastico, all’eccessiva precarietà, ai falsi miti, all’avanzare della logica consumistica, al presentismo e al pudore dei sentimenti, tantissimi giovani hanno bisogno proprio di luoghi in cui ascoltare e farsi ascoltare, affrontare insieme questioni di senso, coltivare il piacere del dubbio, confrontarsi, confidarsi, fidarsi. L’alternativa è, per tanti, la strada e la violenza. Una chiesa «in uscita» può essere tutto ciò?

L’Osservatore Romano – 17/10/2023