«Parlami d’amore attraverso una canzone: quale sceglieresti?»: silenzio, sospiri, occhi verso il basso, un’onda si distende sulla sabbia, una goccia di gelato si sdraia sul cono, un interminabile «Sta scrivendo» appare sullo schermo del telefono. «Margherita di Riccardo Cocciante», «Questo piccolo grande amore di Claudio Baglioni», «Canzone dell’amore perduto di Fabrizio De André», «Ricominciamo di Adriano Pappalardo», «Cara di Lucio Dalla», «Un’avventura di Lucio Battisti», «La stagione dell’amore di Franco Battiato», «Vedi cara di Francesco Guccini».
No, a rispondere alla domanda iniziale non sono persone adulte, come si potrebbe immaginare dai brani menzionati, piuttosto datati. Sono giovani tra i 20 e i 25 anni, ragazzi e ragazze italiani di diversa estrazione sociale: «Domanda stradifficile però forse direi Il cielo in una stanza di Gino Paoli… la versione cantata da Mina». «Comunque te posso dì pure E tu come stai? di Claudio Baglioni: da brividi anche se scontata». «Grazie Roma di Venditti vale?». Insomma, tanti ragazzi, quando pensano all’amore, pensano subito a canzoni scritte quando ancora non erano nati. Perché? Innanzitutto, è evidente che la bellezza di un certo tipo di musica è senza tempo: basti pensare a melodie come Se telefonando di Mina, testi come E penso a te di Battisti e Mogol, strumenti suonati con dolcezza e grinta tipo il sassofono di Lucio Dalla, discorso valido soprattutto se si parla di autori e compositori.
Eppure, quante volte si sente dire che il confronto tra giovani e adulti è complesso, che i ragazzi sono chiusi, non cercano i loro modelli nelle figure genitoriali, non hanno nulla in comune col passato e sono «troppo diversi da come eravamo noi all’età loro»? Nonostante ciò, chi è cresciuto negli anni Settanta del Novecento sembra avere in comune una cosa straordinaria con chi è cresciuto nel Duemila: il modo in cui pensa, canta, ascolta, racconta e vive l’amore. Non un sentimento a caso, ma il sentimento. E questo avviene grazie — anche — alla musica, a quei brani che aiutarono i giovani del Sessantotto a imprimere un distacco generazionale rispetto ai genitori e rispetto al passato.
Anziché limitarsi a vedere il mondo giovanile come inaccessibile, anziché crucciarsi sull’assenza di confronto generazionale, da sempre complesso, ci si potrebbe quindi interrogare sul motivo di questa scelta. Certo, oggi i ventenni hanno fatto propri generi come il rap, la trap, l’indie. Si pensi al successo di cantanti come Blanco, Tommaso Paradiso o Ultimo, che con brani come Amati sempre riesce ad unire giovani e adulti perché «quando amiamo una persona, generalmente dimostriamo il nostro amore trattenendola invece spesso per amare veramente bisogna saper lasciare andare». Ci sono poi gli eterni — comunque adulti — Tiziano Ferro, Cesare Cremonini, Vasco Rossi o Jovanotti. Anche il modo di ascoltare la musica è cambiato, con lo streaming, le casse portatili o le cuffiette.
Ma l’amore no. Non può essere cantato con l’autotune né assume lo stesso valore se messo al centro di un brano rap o metal, spesso espressioni di rabbia. L’indie sembra essere il genere musicale che, nel contenuto, più assomiglia al cantautorato: i testi di Coez, Calcutta, Gazzelle, Carl Brave sono letti e interpretati. Tuttavia, spesso i ragazzi li ascoltano nel momento della sofferenza, della nostalgia, della mancanza.
È vero che, a differenza degli anni Settanta, mancano così tanti punti di riferimento musicali dotati di poeticità, capaci di raccontare l’amore tra due persone, la bellezza del sentimento, la semplicità di una relazione. Ma non si tratta solo di questo. A febbraio su #CantiereGiovani ci eravamo occupati di quanto sia facile oggi parlare di attrazione fisica e di quanto sia invece difficile parlare di emozioni. Tuttavia, le interviste raccolte in quell’occasione e i brani d’amore citati oggi ci confermano che il pudore dei sentimenti è solo una forma di autodifesa.
I giovani non hanno mai smesso di cercare i sentimenti. Sono solo stati abituati a parlarne meno: vivono la crisi della famiglia, non riescono a fare progetti a lungo termine a causa dei ritmi opprimenti della quotidianità, la logica consumistica li ha educati al culto del corpo e del benessere fisico, i social network fanno emergere miti sbagliati. Ma, in realtà, i giovani scavano nella profondità delle parole, ricercano l’inedito, tendono alla nostalgia del cuore, ammirano chi è capace di raccontare le emozioni con cui l’essere umano convive. Poi sono curiosi del passato, si entusiasmano per la poeticità, sono interessati a capire come è nato l’amore tra i loro genitori perché del calore familiare, spesso, riescono a vedere solo la fase discendente.
E, per conciliare tutto ciò, si affidano anche alla musica del passato. Come se essa fosse una vera grande testimone di un tempo passato che ha dato origine al presente e di cui oggi non sembra esserci più traccia. Come se la musica simboleggiasse l’opportunità di un confronto col mondo degli adulti e la possibilità di dialogo coi propri genitori. In effetti, non è proprio «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII , v. 145)?
L’Osservatore Romano – 25/08/2023