Dal 24 febbraio 2022 la Russia ha lanciato quasi seimila missili contro l’Ucraina, bombardando 3.387 aree civili e uccidendo 1.734 civili. Come se cifre simili non bastassero, dietro tutto ciò si nasconde il paradosso per eccellenza della guerra sul terreno: la Russia è riuscita a lanciare un numero così elevato di missili grazie alla componentistica elettronica occidentale.
Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Nuova Zelanda, Australia, Giappone, Svizzera e vari paesi dell’Unione Europea, non escluso il nostro: che il rapporto tra Kiev e l’Occidente si stia incrinando non lo dimostrano solo le titubanze, soprattutto americane, su quali e quanti aiuti fornire al paese in guerra, ma lo conferma anche l’avvertimento lanciato dall’Ucraina in un documento governativo, intitolato «Stop Missile Terror».
Secondo i dati forniti da Kiev, le ritorsioni adottate dalla coalizione dei paesi sanzionatori servono a poco perché le componenti elettroniche necessarie a produrre missili arrivano comunque in terra russa. Originariamente deputate all’impiego civile, ma facilmente applicabili ai missili. Attraverso paesi terzi oppure a causa di sistemi di controllo decantati come tanto rigidi e in realtà piuttosto deboli. Ma se è vero che le spedizioni non sono effettuate per via diretta e quindi gli apparati istituzionali non sembrano direttamente coinvolti, una cosa va subito evidenziata: l’Occidente non ha attivato alcun monitoraggio sistematico e permanente sul corretto funzionamento delle sanzioni. Non è stato rafforzato il controllo sulle esportazioni di alcuni beni ritenuti essenziali in tempo di guerra. Non è stato imposto alcun obbligo di esibire un certificato di utilizzo finale del prodotto o una garanzia secondo cui la merce non entrerà in Russia o in qualsiasi altro paese sanzionato.
Ancora una volta, si è creduto alla retorica dimenticandosi del pragmatismo: il problema principale della guerra economica resta proprio l’incapacità o la non volontà, da parte di governi e aziende, di far rispettare le misure restrittive.
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