Risolvere le controversie storiche, rafforzare i legami strategici ed economici, definire la linea da usare contro i rivali. Sono stati questi i temi centrali del viaggio del presidente della Corea del Sud Yoon Suk-yeol a Tōkyō (Tokyo) e dell’incontro col primo ministro del Giappone Fumio Kishida, avvenuto tra il 16 e il 18 marzo scorsi.

Se l’ultimo vertice bilaterale tra un primo ministro del Giappone e un presidente della Corea del Sud era datato 2011, bisogna comunque notare che oggi il clima non è stato poi tanto distensivo. Più che frutto della volontà delle parti, il riavvicinamento sembra il prodotto di due fattori: la politica anticinese di Washington e la necessità di Tokyo e Seoul di dimostrare di essere all’altezza di un’alleanza più forte con gli amici d’oltreoceano.

Durante il vertice di questi giorni, Seoul e Tokyo non hanno rilasciato alcuna dichiarazione scritta congiunta. Formalmente, perché «non c’è stato abbastanza tempo per riassumere le rispettive posizioni e per affinare un linguaggio adeguato». Evidentemente, perché il riavvicinamento va sì premiato, ma comunque pesato.

Ancor più quando si parla di Giappone e Corea. Tokyo ha sempre visto Seoul come “un coltello puntato verso il cuore del proprio paese”. Perciò, dopo aver invaso la Corea lo scorso secolo, oggi avanza rivendicazioni territoriali sulle rocce di Liancourt – i novanta isolotti chiamati in coreano Dokdo e in giapponese Takeshima, amministrati de facto dalla Corea del Sud. Seoul non ha mai dimenticato i drammi dell’occupazione nipponica (1910-1945), volta a cancellare la cultura e la lingua coreana quanto a sottomettere la popolazione locale.

Ecco perché il problema del risarcimento per i parenti delle vittime dell’occupazione giapponese è più sociale che storico. E non sembra superato neanche dopo l’ultima decisione di Yoon: una fondazione nazionale chiederà alle società coreane risarcite nel 1965 dal Giappone di devolvere oltre 2 milioni di dollari ai 15 operai sopravvissuti e alle loro famiglie. Queste, appellandosi alla sentenza della Corte Suprema del 2018, hanno fatto causa alle aziende giapponesi Mitsubishi Heavy Industries e Nippon Steel Corporation, accusate di sfruttamento su suolo coreano lo scorso secolo.

Se la notizia è stata ben accolta in Giappone (in un sondaggio di Kyodo News il 57,1% degli intervistati si dice favorevole) e negli Usa (il presidente Joe Biden ha rilasciato una dichiarazione per elogiare gli sforzi dei due alleati), i partiti sudcoreani d’opposizione hanno parlato di tradimento verso la storia nazionale. Le vittime sopravvissute al lavoro forzato hanno respinto il progetto. Stando a un sondaggio di Korea Gallup, quasi il 60% dei sudcoreani ha detto di essere contrario a risolvere entro questi termini la controversia.

Piuttosto, il sostegno nei confronti dell’operazione proviene dal mondo imprenditoriale. Che è stato in visita alla corte del Sol Levante con Yoon – fra tutti, i leader di Samsung e Hyundai. Esortata da Washington e convinta dal nuovo atteggiamento di Seoul, Tokyo rimuoverà le restrizioni imposte nel 2019 all’export di componenti per la fabbricazione di chip verso la Corea del Sud, che a sua volta ritirerà la denuncia fatta presso l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto).

Proprio pima del viaggio in Giappone, Yoon ha annunciato la costruzione del più grande cluster di chip al mondo a Yongin, nella provincia di Gyeonggi. Cinque nuove fabbriche, tra impianti di produzione, case di progettazione, fornitori di materiali e consolidamento della catena di approvvigionamento.

Tutto incentrato su high-tech, batterie, robot e veicoli elettrici. L’investimento a livello governativo sarà pari a 422 miliardi di dollari e seguirà i 230 miliardi di dollari messi già in campo da Samsung.

E potrebbe presto coinvolgere Tokyo perché, come chiarito da Yoon, «se la Corea e il Giappone, entrambe potenze commerciali globali e leader dell’industria manifatturiera, lavorano insieme sulla tecnologia, si genererà un’enorme sinergia».

Collaborare per dimostrare di essere più forti agli occhi della Cina – rivale da arginare – e degli Stati Uniti – alleato da convincere. Durante il viaggio di Yoon, le principali federazioni industriali di Giappone e Corea del Sud hanno quindi annunciato la creazione di «futuri fondi di partenariato congiunti» su materie che vanno dall’energia alle materie prime fino alla trasformazione digitale e agli scambi culturali tra i due paesi.

Ancor più efficace sembra essere la risposta alla minaccia nordcoreana. Esprimendo «forte insoddisfazione» per il viaggio di Yoon in Giappone, giovedì la Corea del Nord ha lanciato un missile balistico a lungo raggio ICBM da Sunan verso il Mar Orientale. Domenica, durante l’esercitazione combinata fra Seoul e Washington “Freedom Shield”, un missile è stato sparato dall’area nord-occidentale di Tongchangri.

Già nel 2022 il paese eremita aveva lanciato oltre novanta missili. Così, Seoul e Tokyo non hanno esitato a dichiarare «completamente normalizzato» il General Security of Military Information Agreement, la condivisione di informazioni militari riservate su P’yŏngyang (Pyongyang). Kishida ha poi invitato Yoon al vertice del G-7 che si terrà a Hiroshima a maggio.

Prima, però, il presidente sudcoreano incontrerà ad aprile Joe Biden volando negli Stati Uniti. I colloqui si concentreranno sulla conferma del principio della deterrenza estesa, sulla minaccia nordcoreana e sulla guerra commerciale degli Usa con la Cina. Ed è qui che la dimensione globale di Seoul si sposerà con la sua dimensione locale. Perché, nel frattempo, Yoon dovrà capire quanto la normalizzazione nei confronti del Giappone potrà essere definitiva a livello geopolitico e come sarà accolta a livello sociale.

Limes, carta di Laura Canali – 2018

C’è poi la questione della minaccia nordcoreana. Da affrontare con la consapevolezza che la sopravvivenza di Pyongyang è condizione necessaria per restare sotto l’ombrello americano.

Senza Pyongyang, Seoul non sarebbe così importante per Washington. Senza Pyongyang, Washington non potrebbe giustificare una presenza militare così forte nella penisola. Peraltro, principale destinazione dell’export sudcoreano è ancora la Cina.

Insomma, Seoul dovrebbe scegliere quale direzione prendere: consolidare vere alleanze nel cortile di casa o dimostrare agli Stati Uniti di essere all’altezza di poter entrare nel Quad.

Limes – 21/3/2023