Si legge la notizia, si apre l’applicazione sul telefono, si ritira il proprio conto in banca. Con un clic. Restando comodamente sul divano di casa e in pantofole, magari con un leggero allarmismo per alcuni, ma senza alcuna corsa agli sportelli. Si è parlato del crac di Silicon Valley Bank e di Credit Suisse come della prima crisi bancaria ai tempi dei social media. Ma, ancor più, si tratta della prima crisi bancaria ai tempi dell’ampia diffusione dell’home banking, il sistema che consente di effettuare transazioni finanziarie tramite internet.
Questa crisi non può né deve essere analizzata solo sul piano economico e finanziario. Necessita invece di riflessioni a livello psicologico, sociologico e comunicativo. Perché parte dalle tasche e si infiltra nella mente. Attraverso e con la tecnologia. Di questo abbiamo parlato con il francescano Paolo Benanti, esperto di etica, bioetica ed etica delle tecnologie, docente presso la Pontificia Università Gregoriana.
«Andiamo indietro di circa settemila anni: l’uomo scambia per la prima volta un oggetto di valore, probabilmente un secchio pieno d’orzo, con una moneta, qualcosa di nuovo, che forse ha un valore ma sicuramente non è utile come l’orzo. Cosa ha convinto quell’individuo a uno scambio simile? La fiducia. Che ha due caratteristiche: dev’essere globale e dev’essere confermata dagli avvenimenti. Oggi sono proprio gli agenti integrativi come social network e home banking ad avere un ruolo fondamentale in questo senso: ci dicono cosa è affidabile e cosa no, come comportarsi in certe situazioni, cosa fare e cosa no. Il nuovo modo di descrivere la realtà passa per questi agenti integrativi. E più questi agenti integrativi gonfiano un avvenimento, una crisi bancaria come una crisi politica, più comprendiamo come non solo tutte le istituzioni siano coinvolgibili, ma come anche ogni singolo tsunami possa toccarci individualmente».
La tecnologia come custode della verità. E la fiducia come sfondo sul quale si muove il rapporto psicologico tra uomo e tecnologia: «Tutto è mediato dallo smartphone— prosegue Benanti — sul piano sentimentale come su quello economico. Era avvenuto qualcosa di simile con l’invenzione della stampa. Se prima c’era un solo lettore e tanti uditori, col tempo ognuno ha iniziato ad avere il suo libro. E ognuno iniziava così a dare la propria interpretazione del testo. Oggi avviene qualcosa in più. Ognuno interpreta, ma ognuno ha una storia diversa da leggere a seconda delle decisioni di un algoritmo. Tutto ciò genera un terzo, fatale elemento: una società individualizzata. Non esiste un noi. C’è un rapporto tra il singolo e l’oggetto. Perciò, di fronte alle crisi, emerge lo spaesamento e il timore della solitudine, dell’incapacità del singolo di agire».
Una grande fragilità, dunque, manipolabile da chi ne vuole ricavare vantaggi politici o economici. «Tuttavia, questo non è un problema della tecnologia — chiarisce Benanti — è piuttosto un problema di come il mercato sfrutta la tecnologia. Io uomo non sono più un utente ma un consumatore. Per il mercato siamo tutti individui, non esiste gruppo».
Ogni artefatto è affidato alla mano di chi lo usa. Non c’è utensile che non possa diventare arma. La tecnologia come un coltello, insomma: tagliare o uccidere, essere utile o essere dannoso. Di fronte a questo problema, la domanda: vietare o educare? «Educare, ovviamente — risponde Benanti — è già accaduto diverse volte, pensiamo all’alcol o ai farmaci diventati in seguito dipendenze. A tre condizioni. La prima: non trattare l’essere umano solo come un consumatore, bensì come individuo e come soggetto capace di generare comunità. Poi, riconoscere che giovani e anziani sono soggetti vulnerabili e quindi da proteggere. Infine, dobbiamo preparare una risposta di civiltà. E, su questo, la Chiesa può davvero dare una mano».
L’Osservatore Romano – 18/4/2023