«Ho la Fomo, la sindrome del fear of missing out: anche se sono stanca, devo uscire ogni giorno, altrimenti ho paura di perdermi qualcosa». Raccontando se stessa, tempo fa Victoria de Angelis, musicista e bassista del gruppo musicale dei Maneskin, ha raccontato una tendenza comune a tanti giovani: uscire. Perché l’incontro con l’altro è meglio dell’incontro con sé stessi. Perché non bisogna pensare. Perché gli adulti non si stancano di ripetere che fuori il mondo va alla velocità della luce e allora ci si sente obbligati a conoscerlo per non farsi cogliere impreparati. Perché bisogna fare gruppo — non comunità — e trovare qualcuno capace di ascoltare racconti e sfoghi personali. Perché per molti la pandemia ha rubato troppo tempo. Perché tanto a casa mamma e papà litigano, ci si annoia o si sta col telefono.
«Io questa sindrome l’ho vissuta — racconta al nostro giornale Martina —: tra i 16 e 18 anni non uscire il venerdì o il sabato sera era da sfigati. Stare in gruppo mi veniva spontaneo perché sono socievole. Ma per me era ancor più necessario: mi faceva sentire accolta e non giudicata, normale e non diversa. Crescendo, una tendenza si è però trasformata in una sindrome. È avvenuto quando ho avuto i miei motivi per non stare bene e quando ho iniziato l’università, un periodo in cui pensi di poter organizzare autonomamente il tempo dopo gli anni del liceo».
«Tra i 19 e i 21 anni ho evitato di affrontare i miei problemi in modo patologico — prosegue —: alienarmi da me stessa pur di non pensare, pur di non vivere nel qui e nell’ora, pur di non fermarmi. Gli stimoli non mi mancavano: non si trattava di semplici uscite sotto casa o al muretto, ma di andare in discoteca, al ristorante, nei locali, in vacanza. E io, allora, uscivo. Ogni giorno. Tornavo alle quattro di notte, dormivo due ore, andavo in università. Studiavo e andavo bene. Perché il mio nemico era la mia mente. Io non dovevo pensare. Né tanto meno mostrarmi debole. Stare fuori per me significava stare bene».
«Un adesivo sulla metro recitava: “Staccatevi dai telefoni e amatevi di più” — esordisce Erik, 25 anni – il testo è banale, però mi ha fatto riflettere. Chi lo ha detto che sul e col telefono non ci si può amare? Chi è sempre con lo smartphone in mano non lo potrebbe fare per paura di perdersi qualcosa, per paura di sentirsi dimenticato dal proprio mondo, per essere in contatto con chi ama? Insomma, non potrebbe farlo in modo patologico? E, anziché giudicare chi lo fa, ci interroghiamo sulle possibili cause? A me la Fomo non riguarda. So stare bene con me stesso perché so di poter contare su me stesso. Penso che più una persona è social, meno socievole è. Però percepisco come le persone attorno a me vivano con questa sindrome, che quindi inizia a riguardarmi indirettamente». «Non ho mai pensato di avere questa patologia — riflette Beatrice — però i miei amici mi hanno fatto notare che tendo a far vedere sempre, attraverso i social network, come sto passando una serata. In un modo forzato e non spontaneo, dicono. Foto o video del locale, di una canzone in discoteca, un cocktail. Fotografo e posto. Ma non lo faccio per vantarmi. Credo piuttosto sia un atteggiamento legato al passato. Ho fatto tanta fatica per farmi accettare dalle persone. Alle medie e al liceo ero nel gruppo delle sfigate. Ora voglio far vedere a quelle persone che ho trovato la mia strada. Che sono come loro. Normale. Se non condividessi qualcosa, mi continuerebbero a vedere come prima. E a me non va».
Ma si può uscire da questa sindrome? Martina è sicura di sì: «Oggi non sono più come prima. La mia uscita dal Fomo è stata voluta. Un giorno ho capito che non potevo andare avanti così. Avevo iniziato a soffrire di insonnia e di paralisi del sonno, poi di ansia. Pure la famiglia mi diceva di cambiare. Di mia iniziativa sono andata in terapia. E ha funzionato. Poi è arrivato il covid. Che ho vissuto benissimo. Dopo un mese ho iniziato a capire come fosse figo stare a casa, avere tempo da dedicare a sé stessi, dormire. A stare ferma, in effetti, non si sta così male. Stare fermi insegna a rinunciare. E rinunciare, a sua volta, insegna a scegliere. A vivere la socialità in modo sano».
Forse la Fomo è sempre esistita. Patologia o tendenza, ora le è stato dato un nome. Nulla di rivoluzionario, ma forse qualcosa di necessario per porsi qualche domanda. Quando ci si trova nei locali con gli amici, si pensa che gli altri siano usciti di casa in modo naturale, per stare insieme. Ma è davvero così? La Fomo dice di no. E cerca di spalancare domande sul perché, sulle cause, sulla persona. Sui dettagli e sulle storie. Sull’altro. Che, prima o poi, potrebbe diventare io.
L’Osservatore Romano – 14/3/2023