Guerra chiama, guerra stravolge. Se la fine dell’apparente ordine cui si era abituati è solo all’inizio, sono già molte le onde d’urto scatenate dall’invasione russa in Ucraina. Oltre alle tragiche conseguenze umanitarie, c’è l’onda d’urto economica. Rappresentata dall’inflazione, legata anche all’energia, disastrosa in particolare per i più poveri. Di qui, la necessità di pensare a un sistema nuovo. In Europa e in Italia. Consapevoli che, a livello internazionale, l’energia non arriverà più da dove arrivava prima, ma che il Mediterraneo può tornare ad essere centrale. E che se prima il gas veniva da nord e scendeva a sud, ora viene da sud e sale a nord, con non poche implicazioni per il Mezzogiorno italiano.

A settant’anni dalla fondazione di Eni abbiamo affrontato questi temi con Claudio Descalzi, amministratore delegato della società.

Tra temperature medie, stoccaggi pieni e calo della domanda di energia in Asia, questo inverno sembra passerà meglio del previsto per l’Italia. Ma per investire, diversificare le fonti e stoccare nuovo gas, quindi per trovare soluzioni definitive, serve tempo. Come saranno i prossimi inverni?

Questa primavera come Eni abbiamo avviato in tempo record un piano di sostituzione delle nostre forniture di gas russo che ne coprirà oltre il 50 per cento questo inverno, il prossimo inverno l’80 per cento e quello successivo il 100 per cento. Siamo così riusciti a riempire gli stoccaggi oltre i livelli previsti e, complici fattori come il clima mite e una buona razionalizzazione dei consumi civili e industriali, per questo inverno abbiamo probabilità molto buone di farcela. Quest’anno però non avremo più il gas russo che in parte abbiamo avuto nel 2022, potremmo avere un inverno più freddo e dobbiamo anche preventivare variabili come un possibile aumento della domanda cinese. Per queste ragioni, ci siamo garantiti per quest’anno un ulteriore aumento dei flussi di gas via gasdotto dall’Algeria e, soprattutto, avremo a disposizione sette miliardi di metri cubi addizionali di GNL che proverranno da altri nostri partner africani, come Egitto, Angola, Congo. Per poter utilizzare queste forniture, tuttavia, è indispensabile installare in Italia già quest’anno un quarto rigassificatore, oltre ai tre che abbiamo. E per poter contare in futuro su una sicurezza energetica ancora più solida e stabile, mantenendo sostenibile il livello dei prezzi, dovremo creare una situazione di abbondanza d’energia, diversificando ulteriormente il nostro mix energetico, grazie anche al sempre maggiore utilizzo delle energie alternative e rinnovabili, e le rotte di approvvigionamento del gas, potenziando la nostra capacità infrastrutturale di importazione.

Da un lato, il richiamo all’energia sostenibile. Dall’altro, il consumo di petrolio in aumento nel 2022 mostra un mondo che va ancora a idrocarburi. Come si fa a convertire la produzione di intere industrie? È rischioso puntare solo su un tipo di soluzione?

Continuare a vedere i due obiettivi epocali della sicurezza energetica e della decarbonizzazione con la lente dell’ideologia, o come radicali alternative, non ci porta lontano. Dobbiamo osservare le cose come stanno: i sistemi economico industriali globali richiedono ancora in buona parte energie tradizionali, e per riuscire a compiere la transizione energetica dobbiamo continuare ad alimentarli, trasformandoli gradualmente in sistemi capaci di non generare emissioni, cambiando non solo l’offerta ma anche la domanda. A livello di sicurezza degli approvvigionamenti dobbiamo ricorrere alla più pulita delle fonti fossili, il gas, abbattendone le emissioni attraverso tecnologie come cattura e stoccaggio della CO2 e tramite la costante riduzione delle emissioni fuggitive. Ma dobbiamo soprattutto spingere fortissimo sulla transizione, utilizzando tutte le tecnologie a nostra disposizione per decarbonizzare i molteplici ambiti dei sistemi in cui viviamo, accelerando innanzitutto sulle rinnovabili, ma anche per esempio sui biocarburanti e sui progetti legati all’economia circolare. È poi indispensabile continuare a investire in ricerca e sviluppo tecnologico legati alla transizione, in cui come Eni abbiamo investito oltre sette miliardi di euro negli ultimi sette anni. Il nostro obiettivo è arrivare entro il 2050 ad avere processi industriali e prodotti completamente decarbonizzati. E offrire prodotti privi di emissioni è il modo più pragmatico che abbiamo per arrivare a decarbonizzare anche la domanda. Eliminare l’ideologia significa anche aprirsi la strada a vere e proprie rivoluzioni tecnologiche, come potrà essere la fusione a confinamento magnetico, tecnologia nella quale stiamo investendo significativamente e che potrebbe, già all’inizio del prossimo decennio, portarci alla produzione industriale di energia pressoché illimitata e priva di emissioni.

Quali lezioni per il futuro può trarre l’Europa dalla crisi energetica che sta attraversando?

La prima lezione è che la domanda di gas in Europa è inelastica, è sempre la stessa da anni. Per avere una situazione di tranquillità dal punto di vista della sicurezza e dei prezzi, le forniture devono essere abbondanti, ma mantenute in un quadro di mix energetico e fonti sempre più diversificate. Il secondo insegnamento è che la transizione energetica, assolutamente vitale da compiere, non può prescindere dalla sicurezza degli approvvigionamenti e dal costante miglioramento dell’accesso all’energia.

La transizione, senza energia che la alimenta, fallisce. Quindi è vero che adesso viviamo uno scenario di relativa tranquillità, ma non dobbiamo cullarci in questa calma, e dobbiamo lavorare da subito tutti insieme a livello europeo, attraverso la politica, l’industria e l’economia, a un Piano di sicurezza energetica condiviso e coordinato: un qualcosa che non abbiamo mai avuto. Dobbiamo tenerci ben stretti gli obiettivi ambientali che stiamo perseguendo. Ma al contempo dobbiamo nel preoccuparci di mettere al sicuro, dal punto di vista energetico, i nostri sistemi economici e industriali attraverso un Piano che incroci le esigenze dei vari Paesi, le loro caratteristiche geografiche, economiche e industriali, le loro interconnessioni, i loro livelli di sviluppo, i diversi mix energetici che alimentano i loro sistemi e che persegua l’obiettivo della decarbonizzazione utilizzando non una, ma tutte le soluzioni tecnologiche possibili.

Per molti Paesi, Italia compresa, questa transizione sembra avere una soluzione nel Mediterraneo. Che rapporto c’è con i Paesi del Nord Africa?

Quello europeo è un Continente che ha fonti energetiche proprie insufficienti. Deve rifornirsi altrove. Nel farlo, l’Europa e l’Italia hanno tutto l’interesse economico e politico a evitare le dipendenze. Pertanto, dobbiamo diversificare i mix energetici e le fonti di approvvigionamento, ricercando l’abbondanza nelle infrastrutture e nelle forniture, che sono le basi per la sicurezza e per i prezzi sostenibili in un’economia che vogliamo resti concorrenziale. Il Piano cui faccio riferimento dovrebbe includere proprio la creazione di un forte corridoio sud-nord con l’Africa. Questa è la risposta a ciò che l’Europa dovrebbe cercare: diversificazione, rapportandoci con i molteplici Paesi africani e le diverse fonti che essi possono offrire, e abbondanza di energia. E l’Europa sarebbe in grado di dare all’Africa ciò che le manca: fondi e tecnologie. Un corridoio dotato delle necessarie infrastrutture e fondato su vere e proprie alleanze che consentano di porci come partner per la transizione energetica africana. In altre parole, un approccio Africa first basato sul rispetto: non possiamo pensare di comprare semplicemente gas e imporre le nostre ricette, ideologizzate, per la decarbonizzazione. Dobbiamo rischiare con loro e come loro, condividere le nostre esigenze e ascoltare le loro, senza imporre nulla, ma cercare di posizionarsi come alleati per progredire insieme.

Mi piace citare a questo proposito, a titolo di piccolo esempio, gli accordi che abbiamo firmato come Eni con alcuni Paesi africani per la produzione in loco di materie prime agricole in aree altrimenti non coltivabili che utilizziamo per la bioraffinazione in Italia. I Paesi ne sono entusiasti: sono progetti green, guardano al futuro e soprattutto ad altissima intensità di lavoro. Riusciremo a creare un milione di nuovi posti di lavoro locali entro il 2030. Queste, credo, siano le alleanze di cui abbiamo bisogno e sulle quali bisogna lavorare.

Cambiamento climatico prima e guerra dopo. Oggi tutti parlano di energia proponendo soluzioni e alimentando schieramenti. Ma cosa significa davvero fare politica energetica?

Ha detto bene, oggi tutti parlano di energia. Il nostro è un settore estremamente complesso e strategico, con una forte componente geopolitica, ed è evidente invece che per una buona politica energetica occorra innanzitutto consolidare una leadership a livello europeo altamente competente. Per poi raggiungere gli obiettivi di cui abbiamo trattato, sono indispensabili altri due ingredienti: solidarietà e coesione tra politica, industria ed economia, e soprattutto tra Paesi. Solo riuscendo ad andare al di là dei legittimi interessi di ogni soggetto sarà possibile costruire davvero qualcosa di nuovo.

L’Osservatore Romano – 11/2/2022