«Siate sicuri che noi condividiamo le pene, così pure le speranze e le aspirazioni dei vietnamiti»: sabato 28 novembre 1970 san Paolo VI lancia un appello ben chiaro per la pace in Vietnam. Il pontefice si trova a Manila, capitale delle Filippine, per il pellegrinaggio apostolico in Asia Orientale, Oceania ed Australia.

Salito sul soglio di Pietro il 21 giugno 1963, Paolo VI eredita da Giovanni XXIII una situazione internazionale caratterizzata dalle tensioni della Guerra Fredda e dal travagliato processo di decolonizzazione. Fin da subito, l’attenzione del pontefice si rivolge alla «pace minacciata» in un’epoca «oscura e incerta più che mai»: nell’enciclica Mense Maio dell’aprile 1965 Papa Montini supplica «tutti i responsabili della vita pubblica a non restar sordi all’aspirazione unanime dell’umanità che vuole la pace». Il 4 ottobre dello stesso anno l’appello riecheggia nel palazzo di Vetro delle Nazioni Unite al grido di «non più la guerra!». «Non si può amare con armi offensive in pugno — ribadisce Paolo VI in quell’occasione — la pace non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi, ma con lo spirito, con le idee».

I riferimenti sono soprattutto alla guerra in Vietnam, conflitto che coinvolge i principali attori internazionali, capace di dividere a metà anche e ulteriormente le società occidentali, aggravatosi proprio nel passaggio dal pontificato di Roncalli a quello di Montini. Non più guerra d’indipendenza ma bombardamenti a tappeto, napalm e crescente presenza militare. «Ma, voi direte, che fa il Papa per aiutarci a raggiungere questa pace, alla quale tutti aspirano? — continua Paolo VI a Manila — noi facciamo tutto quello che è in nostro potere. Non cessiamo di esortare a continuare il negoziato onesto e leale, il cammino più sicuro e l’unico degno dell’uomo per giungere ad una pace giusta e duratura».

In particolare, è evidente il sodalizio con la politica italiana. Alla fine del suo secondo incarico da sindaco di Firenze, Giorgio La Pira organizza un Simposio al Forte Belvedere per ragionare sul conflitto in Vietnam. Inviato un resoconto a tutte le parti interessate, La Pira riceve un invito dal governo del Vietnam del Nord a recarsi nella capitale Hanoi. Motivato a «impedire ad ogni costo un allargamento della guerra», convinto che «Paolo VI può moltissimo per la pace del Vietnam e del mondo», nel novembre ’65 La Pira incontra il presidente vietnamita Ho Chi Minh.

Dopo tre ore di colloquio, concordano un piano di pace con un’importante novità che il leader fiorentino si affretta a comunicare a Paolo VI in una lettera: «Perché il negoziato cominci — si legge — non si richiede preliminarmente l’immediato ritiro delle truppe americane e straniere presenti nel territorio del Vietnam», bisogna invece garantire «l’impegno di ritirare le truppe, cessare il fuoco e che non vi sia espansione di alcun tipo delle operazioni militari». La Pira aggiunge che «gli Stati Uniti sono informati pienamente ed autorevolmente di questo mio viaggio e dei suoi risultati: ora la parola iniziatrice del negoziato spetta ad essi».

La proposta eviterebbe di mettere Washington nella posizione, apparentemente scoraggiante, di procedere a un negoziato solo dopo il ritiro delle proprie truppe. Da un lato, il prestigio della grande potenza e lo scontro diretto con i comunisti supportati da Mosca e Pechino. Dall’altro, le manifestazioni che invocano la pace, sempre più popolari in Occidente. Dal palazzo di Vetro a New York e dal palazzo della Farnesina di Roma giunge il sostegno di Amintore Fanfani, Presidente dell’assemblea generale delle Nazioni Unite e ministro degli Esteri italiano, all’azione di La Pira.

Eppure, il piano fallisce. Svelato dal «St. Louis Post Dispatch», quotidiano regionale del Missouri, il progetto getta ombre sul dialogo col blocco comunista e, reso pubblico, perde credibilità. Entro queste condizioni è impossibile aprire il negoziato, come racconta nel libro Con La Pira in Vietnam Mario Primicerio, professore di matematica, poi sindaco di Firenze e presidente emerito della fondazione Giorgio La Pira, che accompagna La Pira in Vietnam. Il punto di vista americano emerge dalle pagine di Henry Kissinger, futuro segretario di Stato di Richard Nixon: «Il nostro compito — sostiene — consisteva nello scoprire il modo di costruire una Nazione mentre la società era dilaniata dalle divisioni interne e il Paese in preda alla guerra civile» perché «le pressioni cui il Vietnam era sottoposto nel raggiungimento della coesione politica erano schiaccianti». In questo senso, «solo l’America aveva la forza di assicurare la sicurezza di tutti quanti» e «come Nazione guida di alleanze democratiche dovevamo tenere ben presente che decine di Paesi e milioni di persone affidavano la loro sicurezza alla nostra disponibilità».

L’impegno per la pace, comunque, non si ferma. Nel 2005 la rivista «30Giorni» pubblica il Diario Vietnamita di Giovanni d’Orlandi, ambasciatore d’Italia a Saigon dal 1962 al 1967. Nel volume viene rivelato il canale tripartito con l’ambasciatore statunitense Henry Cabot Lodge e l’ambasciatore polacco Janusz Lewandowski: l’operazione Marigold, una trattativa segreta per fermare la guerra basata su un documento di dieci punti da far accettare ad americani, vietnamiti del nord e del sud. Ma i bombardamenti che dal 2 al 14 dicembre dilaniano il Paese complicano la situazione. D’Orlandi osserva come «tale azione decisa dagli Stati Uniti mentre sono in corso conversazioni tripartite a Saigon è da qualificarsi “cinica” e chiarisce le vere intenzioni degli Stati Uniti». Invece, secondo Kissinger, se «l’intesa coi nordvietnamiti comprendeva che non ci sarebbero stati attacchi alle città più importanti o attraverso la zona smilitarizzata, le infiltrazioni del nemico avvenivano invece in modo crescente», lasciando credere che «si stava per scatenare una nuova offensiva».

A questo punto il primo ministro nordvietnamita Pham Van Dong ordina l’interruzione dei contatti presi per l’operazione Marigold. E il piano per la pace, di nuovo, non decolla. La guerra continuerà per altri anni con altre centinaia di migliaia di morti (basti pensare all’offensiva del Têt, all’assedio di Khe Sanh o all’invasione di Laos). I canali romani, nonostante l’operazione Killy con cui l’Italia è formalmente riconosciuta mediatrice tra le parti, e nonostante l’ultima ed estrema idea di un viaggio di Paolo VI a Saigon e Hanoi nel ‘68, s’interrompono. Consapevoli che poco si può quando, nelle parti coinvolte in un conflitto, manca la reale volontà di arrivare alla pace e finisce per prevalere il mostro della guerra. Ieri come oggi.

L’Osservatore Romano – 27/1/2023