Il valore delle vendite globali di semiconduttori, cioè di quei materiali come silicio o germanio alla base della microelettronica, è passato da 200 miliardi di dollari nel 2000 a 440 miliardi nel 2020. Entro il 2030 potrebbe toccare i mille miliardi. No, la tecnologia non arriva dopo o prima del resto. Avviene dentro. Dentro la geopolitica, l’economia, la storia, la quotidianità. Capace di spostare l’asse globale, in cerca non di superiorità ma di centralità.
È la sfida che Alessandro Aresu, consulente per le istituzioni italiane tra cui la presidenza del Consiglio dei ministri e consigliere scientifico della rivista «Limes», racconta nel suo ultimo libro “Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia” (Feltrinelli, 2022).
È una storia di imprenditori come Jack Ma, fondatore di Alibaba, e Morris Chang, fondatore della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company. È una storia di guerre commerciali, quella fra Stati Uniti e Giappone negli anni Ottanta e oggi fra Stati Uniti e Cina. È una storia di dimensioni, dove chi costruisce il chip più piccolo vince, e di sincronizzazioni, dove dalla catena industriale dipende la sopravvivenza globale. È insomma la storia del cuore pulsante del commercio internazionale.
Comprese sfide e protagonisti, è legittimo interrogarsi sugli assenti. A che punto è l’Europa? «Sui semiconduttori le aziende europee sono fondamentali in alcuni segmenti, tra cui i macchinari — specifica Aresu a «L’Osservatore Romano» — l’olandese Asml produce la macchina più avanzata al mondo di quest’industria, con l’apporto fondamentale di Zeiss e Trumpf. Quindi, se un’azienda europea smette di consegnare le sue macchine, molte cose si bloccano sul serio».
Eppure, insiste l’autore, «la strategia di Bruxelles sui semiconduttori è limitata non per colpa della Commissione europea, che ha indicato una strada giusta, ma che poi deve seguire la volontà degli Stati. I Paesi europei non mettono altre risorse comuni dopo Next Generation EU. Preferiscono fare ognuno per sé, sulla base delle disponibilità di bilancio, mentre la crescita di aziende europee in questa filiera dovrebbe essere un tema di interesse comune».
Imprudenza chiama rischio: finire vittime delle strategie altrui. «Non usciremo facilmente dal circolo di sanzioni, controlli sulle esportazioni, politiche industriali nelle maggiori filiere della competizione tecnologica — osserva Aresu —, questo ha alcune conseguenze da considerare. Le famiglie possono essere colpite da aumenti dei prezzi. Le imprese devono imparare a valutare l’impatto delle sanzioni e della corsa ai sussidi, anche e soprattutto indiretto, e incorporarle con attenzione e adeguati investimenti nella valutazione dei rischi. Uno dei temi del mio libro è che la tensione tra Stati Uniti e Cina ha un motore politico ma ha costi economici profondi e innegabili. Bisogna essere chiari: riportare a casa alcune industrie significa cambiare il modo in cui viviamo, in cui organizziamo la nostra formazione. Se vogliamo avere un nuovo modello di sviluppo ed essere meno vulnerabili, dobbiamo pagare alcuni costi. Non possiamo pensare di avere strategie sulla chimica, i semiconduttori, le batterie, e poi rifarci la facciata di casa coi soldi pubblici. Bisogna scegliere: o l’uno o l’altro. E ciò che scegliamo determina cosa saremo».
In questo caos generale, assenti sembrano le organizzazioni economiche internazionali. Ma di fronte a scontri commerciali con ripercussioni soprattutto per i più poveri, che fine fanno principi e strutture deputate alla liberalizzazione del commercio? «Possono essere le arene in cui insistono alcune tensioni – risponde Aresu – con una legge approvata d’estate gli Stati Uniti danno enormi incentivi ad aziende che costruiscono una filiera delle batterie che esclude la Cina. Siccome la filiera oggi non funziona così, e la Cina ha un ruolo di leadership e di ampia collaborazione, alcune aziende sono in difficoltà. Sul piano diretto, come per la Corea del Sud, e sul piano indiretto, come per l’Europa. Questo potrebbe spingere alcuni governi ad agire attraverso l’Organizzazione mondiale del commercio».
Immobilismo e sanzionismo da un lato, interdipendenza finanziaria e agenda mondiale climatica dall’altra. Ma la globalizzazione sta finendo o si sta trasformando? «Non dobbiamo essere ipocriti — prosegue Aresu —, le sfide globali hanno sempre una dimensione competitiva. Se abbiamo bisogno di pannelli solari o di batterie, tali oggetti sono prodotti da qualcuno. Qualcuno domina alcune filiere. E c’è chi compra cose progettate e prodotte da altri. Il dominio di queste filiere, allora, continuerà a generare tensioni che dovranno essere gestite. Il tentativo di limitare la globalizzazione è in corso perché ci sarà sempre un contrasto tra interessi economici e interessi militari, politici, sociali. Ma questo tentativo avrà successo solo in parte. Le capacità formative, organizzative e gestionali dei Paesi dell’Asia orientale non potranno essere cancellate solo con grandi incentivi pubblici in Occidente, perché dietro c’è la fame di futuro e di conoscenza di centinaia di milioni di persone».
L’Osservatore Romano – 23/11/2022