È nera, perché sommersa. Agisce nell’ombra, perché non sempre osservabile. È spesso sporca, perché spesso illegale. Eppure, è sotto gli occhi di tutti. Evasione fiscale, contratti in nero, riciclaggio di denaro, attività produttive legali non registrate a causa di problemi burocratici o di accumulo negli archivi, ma anche lavoro domestico, volontariato, donazioni, mance. Una serie di attività economiche che ufficialmente contribuiscono al prodotto interno lordo, ma che non vengono registrate e regolarmente tassate. Tutto questo è l’economia sommersa.

Che in Italia, nel 2019, secondo gli ultimi dati disponibili diffusi dall’Istat, valeva l’11,3 per cento del pil. Poco più di 183 miliardi di euro. Un fenomeno enorme e costante, in leggera flessione grazie alla diminuzione della voce «sotto-dichiarazione», cioè l’occultamento del reddito da parte delle imprese, per 3,8 miliardi di euro.

Ma ci sono tanti motivi, ben lontani dai dati e dai singoli Paesi, per cui vale la pena non sottovalutare l’economia sommersa. Il primo: si tratta di un fenomeno diffuso soprattutto nei Paesi emergenti e in via di sviluppo. Lo ha notato la Banca mondiale nel paper «The Long Shadow of Informality: Challenges and Policies» di maggio 2021, dove si stima che nei Paesi emergenti e in via di sviluppo il settore informale rappresenta oltre il 70 per cento dell’occupazione totale e quasi un terzo del prodotto interno lordo. Ad esempio, nell’Africa subsahariana il valore dell’economia sommersa è del 36 per cento, mentre in Medio Oriente e Nord Africa è al 22 per cento.

Tra il 1990 e il 2018, in media, in questa categoria di Paesi il peso dell’economia informale sul pil è sceso di circa 7 punti percentuali grazie alle riforme fiscali e a governance più forti. Si può lavorare ancora per migliorare questo valore? Ad essere più colpiti dall’economia sommersa sono Paesi con redditi pro capite più bassi, poveri, in cui il reddito non è redistribuito equamente, i mercati finanziari sono meno sviluppati e gli investimenti più deboli. Causa o conseguenza del lavoro informale? In che modo il sommerso impatta su produttività e salari? Se le banche tendono a non concedere prestiti alle imprese non registrate e ai mutuatari senza lavoro formale o reddito dichiarato, come cambia il mercato del credito? Le attività economiche non tassate indeboliscono le entrate pubbliche e, quindi, la realizzazione di beni e servizi pubblici che vanno dall’istruzione alla sanità ai trasporti? Se spesso si parla di più istruzione come soluzione all’economia sommersa, chi e come finanzia l’istruzione in Paesi già poco istruiti e tanto sommersi?

Il sommerso è un problema certamente economico, come sottolinea ancora la Banca mondiale, perché «probabilmente frena la ripresa in queste economie», ma è anche un problema sociale perché «i lavoratori informali sono prevalentemente donne e giovani privi di istruzione e competenze» e «in mezzo alla crisi da covid-19 sono stati spesso lasciati indietro».

Già, la pandemia: l’Organizzazione internazionale del lavoro ha stimato che 1,6 miliardi dei 2 miliardi di lavoratori dell’economia informale nel mondo sono stati interessati da misure di blocco e contenimento del covid con un calo stimato dei loro guadagni pari al 60 per cento. L’azienda è costretta a chiudere, il datore di lavoro licenzia, un settore entra in crisi, lo Stato cerca di aiutare però non riesce a farlo con tutti e a farlo in tempo, ma intanto i costi restano quelli di prima, e allora ecco l’indebitamento, il lavoro nero, l’evasione fiscale. E la medaglia potrebbe rovesciarsi. Perché l’economia sommersa potrebbe rappresentare un cuscinetto per tutte quelle persone che hanno visto le proprie tasche svuotarsi improvvisamente. È possibile? Sì. È giusto? Non sempre. Giuseppe de Rita, fondatore del Censis, lo spiegava nel libro «Prigionieri del presente» del 2018 insieme ad Antonio Galdo: il sommerso non andrebbe usato come «arma e munizione difensiva». Tutto ciò sta contribuendo «in modo determinante a generare una seconda ondata di economia sommersa» che «non esprime nuovi e originali percorsi di crescita economica, benessere diffuso, prospettive di sviluppo individuale e collettivo».

De Rita suggeriva invece di guardare a quella «prima ondata di sommerso degli anni Settanta, che fu al centro di una tumultuosa quanto vitalissima crescita economica che portò alla saga dell’industrializzazione diffusa sul territorio». Eppure, le ricette scarseggiano, le crisi divampano, l’economia presentista avanza. E oggi, tra covid e inflazione, sembra che la terza ondata di sommerso sia già qui.

L’Osservatore Romano – 7/10/2022