Oltre 51.000 chilometri quadrati di superficie, più di 6 milioni e mezzo di abitanti, due lingue, russo e ucraino, una convivenza complicata se non impossibile. È il Donbass. Terra di confine, regione meridionale dell’Ucraina formata principalmente dagli oblast di Doneck e Luhans’k, scenario della guerra europea da oltre cento giorni a questa parte.

Il Donbass tra zar e bolscevichi

Ma il Donbass è un centro di instabilità permanente da secoli. Come d’altronde lo è stata l’Ucraina, che in antico slavo significa letteralmente «terra di frontiera», oggetto di mire espansionistiche da parte di molti imperi, fra cui quello Ottomano e quello Asburgico, della Germania hitleriana così come della Russia zarista e poi comunista. Terra di frontiera e di risorse carbonifere, prevalentemente disabitata, era anche il Donbass del diciassettesimo secolo, ambita dall’Impero Ottomano e dalla Repubblica delle Due Nazioni, cioè Polonia e Lituania. I cosacchi nel 1654 stipularono l’accordo di Perejaslav con l’Impero Russo al fine di ottenere sostegno e protezione da Mosca e cominciarono a insediarsi nel territorio. Lo sviluppo del territorio fu rapido: nel 1869 arrivò la prima ferrovia e nel 1913 il Donbass produceva l’87 per cento del carbone e il 74 per cento della ghisa usata da Mosca. Dissoltosi l’impero e nata l’Unione Sovietica, nel 1917 l’Ucraina avviò una fase d’indipendenza da Mosca che durò solo tre anni e fu complicata da frange indipendentiste vicine ai bolscevichi, fra cui proprio quella della Repubblica di Donec-Krivoj Rog.

Quando nacque la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, gli indipendentisti del Donbass chiesero a Lenin di annettere la regione orientale all’Unione Sovietica. Ma il capo dei bolscevichi rifiutò. Per un obiettivo semplice quanto strategico: Lenin voleva garantirsi un avamposto sovietico a Kyiv. Il Donbass non era solo una regione industriale, ma aveva anche una radicata presenza bolscevica e russofona, fra l’altro perché dopo l’holodomor, carestia provocata dal regime sovietico, che ha fatto molte vittime, tra gli ucraini sono stati portati centinaia di migliaia di russi. L’infaticabile operaio Stachanov, ad esempio, mito della propaganda sovietica, del sistema socialista e della fatica dei lavoratori, era originario proprio del Donbass. Nel 1954, in occasione dei trecento anni da Perejaslav, il nuovo capo di Stato sovietico Nikita Krusciov cedette a Kyiv l’amministrazione della penisola della Crimea, sbocco strategico nel Mar Nero.

Da Kyiv alla Galizia con Leopoli, poi Odessa e Chernihiv, fino a Kherson, Doneck, Luhans’k e la Crimea: ecco l’Ucraina che nel 1991 si avviò all’indipendenza dall’Unione Sovietica, attraverso un processo completato da un referendum in cui più del 90 per cento della popolazione si dichiarò favorevole all’autonomia da Mosca. Dall’archivio di Stato emerge che l’83 per cento degli abitanti delle regioni di Doneck e di Luhans’k votò a favore dell’indipendenza ucraina dall’Urss. Un risultato meno netto rispetto a Leopoli e Kyiv (tra il 92 e il 97 per cento) ma notevole rispetto a quello della Crimea, dove i favorevoli furono solo il 54 per cento dei votanti.

Tuttavia, come per molti Paesi appartenenti all’ex blocco sovietico, anche per l’Ucraina l’autonomia da Mosca ebbe immediate ripercussioni sul piano economico e sociale. Soprattutto nelle aree più etnicamente instabili ed economicamente deboli. Tra queste, il Donbass, dove malcontento e povertà crebbero rapidamente, gli scioperi si moltiplicarono, la produzione industriale e agricola diminuì. Gli abitanti si sentirono abbandonati e richiamarono i propri principi identitari. Così iniziò a crescere la popolarità del Movimento internazionale del Donbass, frangia indipendentista ostile al governo di Kyiv, basata sul principio del suo fondatore, Dmitry Kornilov, secondo cui il Donbass era «senza dubbio russo».

Nel 1994, parallelamente alle elezioni nazionali, negli oblast di Doneck e Luhans’k venne indetto un referendum a proposito del processo di federalizzazione nazionale e dell’uso della lingua russa. Quasi il 90 per cento degli elettori espresse parere favorevole. Ma Kyiv respinse proposte così forti. Con la vittoria alle presidenziali di Leonid Kučma e la nuova Costituzione del 1996, il supporto economico rivolto ai due oblast fu incrementato e la situazione sembrò placarsi.

Tra Occidente e Russia

La posizione di frontiera dell’Ucraina le impose una certa neutralità nello scacchiere internazionale. Inizialmente, i rapporti con Mosca furono complicati, tanto che il Cremlino non riconobbe neanche i confini del neo-Stato dopo il 1991, a causa di vari motivi:

  1. prima del 1991, l’Ucraina fu indipendente da Mosca solo per tre anni, fu la prima repubblica ad essere rioccupata dal regime stalinista e possedeva la penisola della Crimea, fondamentale sbocco nel Mar Nero e sede della base militare di Sebastopoli. Tra i due Paesi, nel 1991, nacque una contesa proprio sul destino dell’ex flotta sovietica dislocata nei porti ucraini del Mar Nero e su cui Kyiv voleva esercitare il proprio potere;
  2. restava aperta la questione sulla sorte dell’armamento atomico dell’ex Unione Sovietica, detenuto per il 40 per cento da Kyiv. Inizialmente l’Ucraina accettò che a smantellare l’arsenale fosse la Comunità degli Stati Indipendenti, guidata da Mosca, ma i dissidi furono talmente forti che Kyiv tornò presto sui propri passi, restando per poco tempo la terza potenza nucleare al mondo[1]. I Paesi occidentali furono costretti a intervenire. Nel 1994, col memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza, Kyiv rinunciò alle armi nucleari sovietiche, che sarebbero state smaltite da Mosca, e aderì al trattato di non proliferazione delle armi nucleari. In cambio, Russia, Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Cina si impegnarono a rispettare sicurezza, indipendenza e integrità territoriale dell’Ucraina;
  3. l’Ucraina avviò un processo[2] di avvicinamento all’Occidente con l’adesione di Kyiv al Consiglio di Partenariato Euroatlantico, la ratifica del Trattato sui Cieli Aperti e la risoluzione pacifica di controversie di confine con Belarus, Romania e Moldavia, per diventare poi il primo Paese della Comunità degli Stati indipendenti ad entrare nella Partnership for Peace, il programma di cooperazione, sicurezza e difesa che intende stabilire un nuovo rapporto tra Nato e Repubbliche ex sovietiche. Pur non facendone parte, l’Ucraina partecipò in quegli anni alle spedizioni atlantiche in Afghanistan, Iraq, Bosnia-Erzegovina e Kosovo[3] e, poco dopo, firmò il Piano d’Azione con la Nato.

Furono soprattutto i rapporti tra Ucraina e Occidente, che nella logica russa minacciavano il principio cardine dello “imperialismo difensivo”, secondo cui il pericolo va allontanato il più possibile dai propri confini, a convincere Mosca della necessità di cambiare strategia con Kyiv. Ma la Federazione Russa era ancora debole sul piano politico, sociale ed economico per inasprire i rapporti coi suoi vicini. Così, nel 1997, i presidenti Boris El’cin e Kuchma firmarono un trattato di amicizia, partenariato strategico e reciproco rispetto dell’integrità territoriale: Kyiv concesse alla flotta russa di restare nel porto di Sebastopoli e nella baia di Karantinnaya per vent’anni, pagando un canone di affitto da 97 milioni di dollari annui, e per affrontare la crisi economica del 1998 i due Paesi incentivarono una serie di investimenti congiunti.

Nuovo secolo, vecchie storie

Tuttavia, la nuova posizione di Mosca verso Kyiv, cui si aggiungevano problemi come corruzione politica, indecisione nello schieramento internazionale e presenza delle minoranze russofone sostenute fortemente dalla Russia, fu malvista dalle regioni più occidentali dell’Ucraina. Questa spaccatura emerse chiaramente nel 2004, quando il vincitore delle elezioni presidenziali in Ucraina, Viktor Janukovyč, appoggiato da Mosca e votato in massa nel Donbass, fu accusato dal suo rivale, Viktor Juščenko, di broglio elettorale. Mobilitata la popolazione, nel 2004 iniziò la rivoluzione arancione. L’adesione fu straordinaria, con le piazze riempite da almeno 30 mila persone. Nella capitale arrivarono Aleksander Kwaśniewski, presidente della Polonia, e Javier Solana, alto rappresentante della politica estera dell’Unione Europea. La Corte Suprema ucraina certificò i brogli, annullò il risultato delle elezioni e i cittadini tornarono a votare: Juščenko vinse con il 52 per cento dei voti.

Eppure, il Paese ne uscì ancor più frammentato. Da un lato, regioni come Kyiv e Leopoli festeggiarono l’arrivo di un presidente filoccidentale e l’intervento concreto dell’Unione europea. Dall’altro, il Donbass tornò a percepirsi come minoranza ignorata e scavalcata. Secondo il censimento ucraino del 2001, negli oblast di Luhans’k e Doneck il 58 per cento della popolazione era ucraina, il 39 per cento russa. Ma la lingua russa veniva parlata da oltre il 70 per cento della popolazione. La presidenza Juščenko sembrò o non tenere conto di tutto ciò o, al contrario, temere i fattori culturali e linguistici così tanto da volerli annientare: nel primo decennio 2000, il numero di scuole di lingua russa nell’oblast di Doneck passò da 518 a 176. Se nel 2005 il 29,5 per cento degli scolari di Luhans’k studiava in ucraino, nel 2009 la percentuale era del 48,5 per cento. Ma due terzi della popolazione continuava a considerare lingua madre[4] il russo. Con la nuova politica governativa, il malcontento in Donbass e Crimea crebbe. Nel frattempo, la Russia riacquisì influenza sullo scenario internazionale, dimostrata soprattutto con lo strapotere nel mercato energetico e l’annessione di Abcasia e Ossezia del Sud a danno della Georgia.

Euromaidan, la svolta del 2013

Frammentazione etnica, posizione geografica e instabilità politica sono tre dei principali problemi che affliggono ancora oggi l’Ucraina e che riemersero nel 2013. Tre anni prima, alle presidenziali, Janukovyč si ripresentò e vinse di misura contro Julija Tymošenko. Il neopresidente suscitò ben presto il malcontento degli ucraini filoccidentali: egli era infatti il presidente della Comunità degli Stati indipendenti, organizzazione internazionale fondata da Mosca, arrestò rivali politici e, nonostante il voto del Parlamento in cui si chiedeva di reintrodurre il sistema semipresidenziale, si rifiutò di approvare la modifica della Costituzione.

La bolla scoppiò nel 2013, quando Janukovyč decise di rinviare ogni decisione in merito alla firma di un nuovo accordo di libero scambio globale con l’Unione europea. Ancora poco chiare le vere motivazioni, ma ben evidenti le conseguenze[5]. Tra novembre e dicembre oltre un milione di ucraini si ritrovarono nelle piazze di Kyiv per chiedere le dimissioni del governo Janukovyč e la firma dell’accordo con Bruxelles. In quei giorni, anche Washington inviò una sua rappresentanza, guidata da Victoria Nuland, ex portavoce del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, al tempo Sottosegretaria di Stato per gli affari europei ed asiatici. Ma la presenza della Nuland sortì un effetto tutt’altro che piacevole per l’alleanza occidentale: «fuck the Europe», disse la politica statunitense durante una telefonata intercettata e diffusa in rete probabilmente dai russi, mentre parlava con Geoffrey Pyatt, ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina, riferendosi alla politica europea nei confronti di Mosca, giudicata troppo debole e contraddittoria. Nel frattempo, le proteste nella capitale ucraina continuarono fino a febbraio 2014 quando, superata quota cento vittime e altrettanti feriti tra manifestanti e poliziotti, il presidente Janukovyč fu costretto a scappare. I cittadini ottennero un governo ad interim con elezioni a giugno, la firma dell’accordo con Unione europea e la reintroduzione del sistema semipresidenziale.

L’inizio di una nuova era? Tutt’altro. La situazione peggiorò in pochi giorni. Mentre nel resto del Paese le piazze si riempivano, in Crimea le fazioni filorusse salirono al potere. In quegli anni la penisola era abitata per il 59 per cento da russi, per il 24 per cento da ucraini e per il 12 per cento dai tartari[6]. A tutela delle minoranze russofone in Ucraina, il primo marzo la Camera alta del Parlamento russo approvò la richiesta di Putin di utilizzare la forza in Ucraina. Compreso il passo di Mosca, la Crimea si dichiarò indipendente dal resto dell’Ucraina e il 16 marzo 2014, attraverso referendum, si pronunciò sull’annessione alla Federazione Russa. Il presidente russo commentò così i risultati: «Più dell’82 per cento degli aventi diritto ha preso parte al voto. Di questi, oltre il 96 per cento si è espresso a favore della riunificazione con la Russia. Questi numeri parlano da soli».

Due giorni dopo al Cremlino si tenne una cerimonia per ufficializzare l’annessione della Crimea, in cui Putin ricordò che «per capire le ragioni di questa scelta è sufficiente conoscere la storia della Crimea e ciò che la Russia e la Crimea hanno sempre rappresentato l’una per l’altra», evidenziò l’importanza strategica di Sebastopoli come «fortezza» e «culla della flotta russa», criticò il modello sovietico, definendo quello di Krusciov un «oltraggioso torto storico».

La guerra senza fine

Le Nazioni Unite non riconobbero la Crimea come territorio russo. Inoltre, i Paesi occidentali[7] applicarono sanzioni economiche individuali a funzionari russi, il divieto di importazione di beni provenienti dalla Crimea e la sospensione di Mosca dal G8. Ma l’attenzione crebbe esponenzialmente quando la Russia, temendo che le minoranze russe nelle regioni del Donbass fossero esposte a pericoli di snazionalizzazione e a persecuzioni, ammassò almeno 40 mila militari lungo il confine ucraino. Putin giustificò questa azione rifacendosi a eventi come quello del 2 maggio 2014 quando, a Odessa, hanno avuto luogo scontri violenti tra i manifestanti filorussi e quelli ucraini, causando diverse vittime e un forte incendio nel palazzo dei Sindacati.

I manifestanti filorussi, che chiedevano un referendum sul modello di quello della Crimea, moltiplicarono le proteste, occuparono sedi amministrative e proclamarono la nascita delle Repubbliche Popolari di Doneck e Luhans’k. Le truppe russe attraversarono la frontiera. Ma il Cremlino non riconobbe le due suddette Repubbliche. Perché, questa volta, la reazione di Kyiv arrivò. Il governo ad interim di Oleksandr Turchynov inviò militari per una missione antiterrorismo. La guerra iniziò. E fin dai primi mesi il bilancio fu tragico: il 14 giugno i filorussi colpirono un aereo militare ucraino uccidendo 49 persone, mentre il 17 luglio l’aereo civile Malaysia Airlines MH17 fu abbattuto da un missile russo, causando la morte di tutti i 298 passeggeri.

Secondo le stime delle Nazioni Unite, almeno 2.593 persone furono uccise in Ucraina tra la metà di aprile e il 27 agosto 2014. Nel quinto rapporto prodotto dall’Onu sulla situazione dei diritti umani in Ucraina vengono documentati una «ampia serie di gravi abusi commessi principalmente dai gruppi armati che hanno preso il controllo di gran parte delle regioni di Doneck e Luhans’k», ma anche «violazioni commesse dalle forze ucraine nei loro sforzi per riconquistare il territorio da cui i gruppi armati stanno conducendo operazioni e in cui hanno individuato obiettivi militari». Infatti, «corridoi presumibilmente sicuri, stabiliti dalle forze ucraine per consentire ai residenti di fuggire da queste città, attraversavano invece aree dove erano in corso i combattimenti», quindi «i civili che utilizzavano questi corridoi furono successivamente uccisi o feriti».

Un cessate il fuoco fra le parti fu raggiunto il 5 settembre, con il primo round dei protocolli di Minsk cui partecipò, per l’Ucraina, il nuovo presidente Petro Porošenko. Eppure, le Nazioni Unite aumentarono le stime: «Dall’inizio del cessate il fuoco sono state registrate almeno 331 vittime», c’è stato anche un «forte aumento delle detenzioni da parte dei gruppi armati» e «segnalazioni di maltrattamenti di persone detenute da forze armate e polizia ucraine». Tra settembre e novembre il numero di sfollati interni all’Ucraina passò da 275.489 a 466.829.

La speranza di un vero cessate il fuoco, dopo che la Russia continuò a schierare migliaia di soldati al confine con l’Ucraina e nelle repubbliche autoproclamate del Donbass si tennero elezioni non riconosciute in cui vinsero i separatisti, sembrò arrivare il 12 febbraio 2015. Di nuovo a Minsk. Questa volta, insieme a Ucraina, Russia e separatisti di Doneck e Luhans’k, si sedettero Francia, Germania e OSCE in qualità di mediatori. Il testo del protocollo, diviso in 13 punti, imponeva a entrambe le parti di assicurare un cessate il fuoco definitivo, ritirare tutti gli armamenti pesanti, marcare una zona di sicurezza lungo la frontiera. In riferimento a Luhans’k e Doneck, il protocollo stabiliva un decentramento del potere affidando ai due oblast uno status speciale, affidando loro l’intera quota parte del gettito fiscale e facendo svolgere regolari elezioni regionali monitorate dall’OSCE.

Ma gli accordi non furono mai realmente attuati da nessuna delle parti: Kyiv era pronta a fare qualche concessione solo sull’uso della lingua e sulle consuetudini, mentre Mosca si batteva per un federalismo sostanziale almeno nel Donbass. E, in assenza di compromesso fra tutti gli attori coinvolti nella crisi in corso, la decomposizione territoriale si estese a macchia d’olio. Negli anni successivi, lungo i 420 chilometri di confine tra Ucraina e Russia, continuarono a muoversi almeno 75 mila soldati. La riforma costituzionale ucraina prevista a Minsk non fu mai realizzata. Anzi, nel 2019, Kyiv inserì nella Costituzione una legge per garantirsi «l’acquisizione della piena adesione all’Unione europea e all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico». Con la nuova presidenza di Volodymyr Zelensky avvenne il primo scambio di prigionieri russi e ucraini. Fino a quell’anno, come riferito da «Foreign Affairs», «il conflitto nel Donbass ha causato più di 13 mila vittime e circa 1,5 milioni di sfollati».

Quella in Ucraina orientale sembrò a molti una guerra[8] in stallo e, per questo motivo, in via di soluzione o di esaurimento. Invece avvenne il contrario. L’escalation è cresciuta negli ultimi due anni perché Mosca ha percepito come minacce per la propria sicurezza una serie di iniziative: la richiesta del presidente Zelensky al presidente degli Stati Uniti Biden di «accelerare il processo per l’ingresso di Kyiv nella Nato», la nuova strategia di sicurezza nazionale ucraina in cui si prevedeva lo sviluppo del partenariato distintivo con la NATO e l’obiettivo di adesione all’Alleanza Atlantica, l’uso del drone Bayraktar B2 di produzione turca da parte dell’Ucraina, il trattato di partnership strategica tra Regno Unito e Ucraina. In risposta, il Cremlino ha rafforzato la partnership con i propri alleati, aumentato il prezzo del gas che trasporta in Europa, cercando di compromettere la solidità di Bruxelles, e continuato ad ammassare truppe al confine con l’Ucraina[9].

Il 12 luglio 2021, in un articolo scritto da Putin a proposito della «storica unità tra russi e ucraini», il presidente russo afferma che «la vera sovranità dell’Ucraina è possibile solo in collaborazione con la Russia». Putin parla di Russia, Ucraina e Belarus come di un «popolo unico, discendente dall’antica Rus», nota come «l’Ucraina è stata trascinata in un pericoloso gioco geopolitico volto a trasformarla in una barriera tra Europa e Russia». Infine, avverte: «Non accetteremo mai il concetto di un’Ucraina anti-russa».

Giovedì 21 febbraio 2022 Putin riconosce l’indipendenza delle due Repubbliche di Doneck e Luhans’k, con cui firma un trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza. Inizia quella che in Russia chiamano «operazione militare speciale». I confini si riempiono di ulteriori soldati, i carrarmati si muovono e sparano, la popolazione ucraina, innocente e barbaramente aggredita, fugge. La pace, che probabilmente non era mai esistita, finisce. L’Occidente, forse dimenticando la storia più recente e i confini più orientali del suo continente madre, l’Europa, dice di essersi svegliato in un nuovo mondo. Ma tutto ciò è sempre esistito. Era uno dei «pezzi» della terza guerra mondiale contemporanea.


[1]«Storia diplomatica: dal 1919 ai nostri giorni», Jean Bapiste Duroselle, 1998

[2] «Le relazioni tra NATO e Ucraina», ministero della Difesa italiano, Panorama Internazionale, a cura di Gianluca Sardellone

[3] «Relations with Ukraine», NATO (Key areas of cooperation)

[4] «No Moscow stooges: identity polarization and guerrilla movements in Donbass», Southeast European and Black Sea studies, Matveeva, 2016

[5] «Storia delle Relazioni Internazionali: dalla fine della Guerra Fredda a oggi», Di Nolfo, 2015

[7] «Ukraine crisis: A timeline (2014-present), House of Commons Library, 2022

[8] «L’Ucraina tra noi e Putin», Limes, 4/14

[9] «Il mondo di Putin», Limes, 1/16

L’Osservatore Romano – 7/6/2022