Etiopia, El Salvador, Ghana, Pakistan, Tunisia. Cinque Paesi, oltre 350 milioni di persone. Sono questi gli Stati che, secondo uno studio della Banca Mondiale e un grafico elaborato da «Bloomberg», potrebbero presto affrontare lo stesso destino dello Sri Lanka, cioè quello del default economico.
Anche il rapporto pubblicato giorni fa dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi), che non ha la pretesa di essere infallibile e, anzi, con una guerra in corso e una pandemia non ancora finita presenta un elevato grado di incertezza, sembra avere ragione su un aspetto: «Gli importatori di materie prime in Europa, Caucaso e Asia centrale, Medio Oriente, Nord Africa e Africa sub-sahariana saranno i più colpiti dal rialzo delle materie prime data la posizione di Mosca in quanto importante fornitrice di petrolio, gas e metalli e, insieme all’Ucraina, di grano e mais». Russia e Ucraina rappresentano il 30 per cento delle esportazioni globali di grano, il 15 per cento di mais, più del 16 per cento di colza, il 77 per cento di olio di girasole e l’80 per cento di semi di girasole.
Con l’inizio della guerra, la Fao ha segnalato che, nel mese di marzo, il prezzo dei cereali è aumentato del 17,1 per cento rispetto a febbraio, mentre i prezzi di mais e grano rispettivamente del 19,1 e 19,7 per cento. Ecco come la guerra economica espande i suoi confini. In Tunisia, dove il 48,5 per cento dei cereali consumati è importato dall’Ucraina, il ministero dell’Agricoltura ha annunciato che «le scorte termineranno a maggio». Il ministro delle Finanze pakistano, Miftah Ismail, ha comunicato che il Paese ha chiuso «impianti con capacità di 7410 MW per mancanza di carburante e guasti tecnici». L’Indonesia ha annunciato lo stop alle esportazioni di olio di palma, di cui è principale produttore mondiale, per far fronte alla carenza interna. A marzo, l’Algeria ha vietato le esportazioni di tutti i prodotti di consumo importati (zucchero, olio) e l’Egitto ha vietato le esportazioni di prodotti alimentari di base come farina e grano.
Nei casi di Tunisia e Pakistan si tratta di Paesi che stanno vivendo profondi mutamenti politici e sociali. La scorsa estate il parlamento tunisino aveva sospeso i lavori e, quasi un mese fa, il presidente Kais Saied ha sciolto l’Assemblea. In Pakistan il premier Imre Khan è stato sfiduciato da 174 deputati, ha lasciato l’incarico ed è così nato un nuovo governo, guidato da Shahbaz Sharif. In che modo incideranno i rincari delle materie prime su situazioni sociali già così tese? È un caso che la Primavera Araba iniziò, tra il 2010 e il 2011, proprio in Tunisia?
Nello Sri Lanka, che lo scorso 12 aprile ha dichiarato il default preventivo, si è tramutata in crisi sociale con scontri e violenze incessanti alle porte dell’abitazione del presidente Rajapaska. Il livello di esasperazione ha toccato vette altissime dopo che la moneta nazionale si è svalutata di oltre il 60 per cento, il costo della benzina è aumentato del 90 per cento e del 138 per cento per il diesel. Mentre le città vivono continui blackout, gli ospedali non hanno più accesso a dispositivi medici e farmaci salvavita. A causa dell’assenza di carta, circa 4,5 milioni di studenti non hanno potuto svolgere gli esami accademici.
L’isola dell’Oceano Indiano, come tanti altri Paesi in difficoltà, è stata per anni riluttante a chiedere aiuto al Fmi. Questo atteggiamento, come spiega in un editoriale «Foreign Affairs», è dovuto alla preoccupazione che le misure di austerità fiscale richieste dal Fondo, inclusi il taglio delle spese e l’aumento delle tasse, possano limitare la capacità di fornire sgravi finanziari. Nel frattempo, i Paesi in questione si ritrovano intrappolati dal debito: per sopravvivere, chiedono e ottengono denaro dagli Stati esteri e, in cambio, concedono sbocchi geografici strategici alle potenze straniere.
Ma gli Stati creditori vogliono o sono in grado di sostenere il Paese più debole quando esso entra in una vera e propria crisi? Quasi mai. Ma se l’intervento delle autorità internazionali è fondamentale, bisogna comunque considerare che un programma di salvataggio deliberato dal Fondo richiede almeno tre anni per essere completato. È prevedibile che si attuino riforme economiche come l’aumento delle tasse o del prezzo del carburante, la riduzione della spesa e la ristrutturazione delle imprese statali. Ciò non esclude il rischio di ulteriori tensioni sociali. È invece improbabile – come spiega un articolo dell’«Economist» – che il Fondo offra un salvataggio a meno che i creditori non accettino di condonare almeno una parte del debito, per evitare che qualsiasi nuova assistenza affluisca direttamente nelle loro casse.
Come sta reagendo la comunità internazionale a questi cambiamenti? Chi sta pensando agli strumenti adatti per evitare che il destino dello Sri Lanka si estenda ad altre zone? I problemi del debito sono sempre esistiti, dall’Argentina alla Grecia. Ma oggi la globalizzazione ha allargato i confini di una guerra europea, ha accelerato le crisi dei Paesi poveri e sta mettendo a rischio tutti. Perché certi problemi toccano temi sociali, come i diritti umani o la stabilità di milioni di persone, e temi economici, come le materie prime o il mercato alimentare.
È possibile che la chiusura dei mercati nell’est Europa e il riassetto del commercio internazionale produca un eccesso di offerta di prodotti alimentari in altri Paesi? Dove finiscono i prodotti indirizzati ai porti che ora sono chiusi a causa della guerra (nel Mar Nero) o della pandemia (in Asia)? Come si riconvertiranno i mercati per fare in modo che i produttori non subiscano ulteriori danni e che il raccolto non vada perduto?
Dei Paesi poveri o lontani conta solo la strategicità economica, magari energetica, o anche la stabilità sociale? E senza stabilità sociale, si può fare affidamento su un’alleanza economica? Sembra proprio che nel nuovo modello di mondo che si va delineando non mancheranno le debolezze del passato. Certi aspetti del futuro sono già presenti.
L’Osservatore Romano – 11/05/2022