«Qui ‘na volta erano tutti virologi», ha scritto giorni fa su Twitter Federico Palmaroli, in arte “Le frasi di Osho”. E ha ragione. Durante le fasi più complesse della pandemia, chiunque era esperto di tamponi, mascherine e vaccini. Oggi tutti parlano a ruota libera di geopolitica e strategia di guerra. Tom Nichols, nel libro La conoscenza e i suoi nemici, li chiamava gli “spiegatori”: «Le persone convinte di essere più informate degli esperti e di avere maggiore acume rispetto alla massa credulona». Niente riesce a fermarli. Neanche una guerra con centinaia di morti nel cuore d’Europa.

Ancor più paradossale il fatto che a certe persone venga dato moltissimo spazio mediatico. C’è chi invita gli spiegatori, ma anche chi li ascolta. Il che è legittimo. Ma pone un problema sull’obiettivo dell’informazione: ascoltare chi si fa portatore di un’idea o voler alimentare un (inutile) dibattito mediatico intorno al proprio prodotto? Pochi dubbi sul fatto che, alla fine, chi ci guadagna sono proprio loro, gli spiegatori : tanto ascolto, troppa attenzione, poca comprensione. Ma finché lo spettatore deve solo annuire, e mai pensare, va tutto bene.

Eppure, certe persone dimenticano che essere informati non significa essere esperti. La mole di notizie che si riceve quotidianamente potrebbe dare questa illusione. Ma non è così. La parola esperienza, che deriva dal verbo latino experiri, significa tentare, mettere alla prova, esporre al rischio sé stessi e le proprie competenze. Avere esperienza è diverso dal fare esperienza. Lo ha sottolineato bene il cardinale Gianfranco Ravasi, nel libro Scolpire l’anima. 366 meditazioni quotidiane: «È solo quando diventa soggettiva, cioè elaborata consapevolmente, giudicata, che l’esperienza si trasforma in una componente feconda che arricchisce la vita». Se manca questo passaggio, le esperienze fatte o acquisite rimangono pure medaglie appese al petto.

Paradossalmente, però, in questi tempi è stato fatto un passo in più: si è capito che neanche la competenza basta a governare il mondo. Michel de Certeau lo sottolineava già nel 1980 quando, nel libro L’invenzione del quotidiano, affrontava il tema dell’illusione degli esperti: «in questa società l’esperto prolifera – notava il pensatore gesuita francese – al punto di diventare la figura prevalente». Oggi si parla di comitati tecnico-scientifici, virologi, analisti, economisti, politologi… nelle istituzioni, nelle aziende, ma anche sui giornali, nei dibattiti televisivi e sui social. Gli esperti sono ovunque. Eppure, le tre grandi crisi che hanno scardinato l’ordine contemporaneo hanno preso tutti alla sprovvista. Nel 2007, il crack economico-finanziario con lo shock del mercato immobiliare e dei mutui subprime. Nel 2020, una pandemia (non ancora finita) ha provocato, fino ad oggi, sei milioni di vittime nel mondo. Infine, la guerra in Ucraina.

Tutta colpa degli esperti, quindi? No. Nessuno ne mette in dubbio la professionalità e il ruolo. Piuttosto, quella che sembra mancare è la competenza e l’autorevolezza di chi decide. Persone che sappiano ascoltare i tecnici, acquisire informazioni, organizzarle e poi deliberare, trovando il comun denominatore delle specifiche competenze nell’interesse generale. Responsabilmente. Sembra proprio mancare la «migliore politica» di cui Papa Francesco parla nell’Enciclica Fratelli tutti. Quella politica che, per essere realizzata, ha bisogno tanto di conoscenze ottenute attraverso lo studio e l’informazione, quanto di doti personali: contatto con la realtà, comprensione, intuizione, osservazione, ponderatezza, prontezza, spirito d’iniziativa, visione. Ma anche l’attitudine a pensare al proprio Paese nel medio e lungo periodo. Anticipare le tendenze. Cogliere l’essenziale. Prevedere le conseguenze delle scelte. Semplificare i problemi. Saper comunicare.

Riprendendo de Certau, solo la «curiosa operazione che converte la competenza in autorità» può permettere di «passare dal linguaggio tecnico a quello più comune». Ed è proprio questo passaggio che sembra mancare. Per deliberare non occorre, né tantomeno basta, essere profondamente esperti in una o più materie. «Abbiamo bisogno – dice il Papa nella Fratelli tutti – di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi». Se chi analizza si ferma, appunto, a fare un’analisi su un certo argomento, chi governa deve passare all’azione e, per farlo, deve compiere altri due passaggi: sintetizzare e decidere.

Ecco, dunque, perché ci sono pochi dubbi sul fatto che governare è un’arte. Ed è l’arte più difficile, poiché deve porsi a metà, o al di sopra, di quelli che de Certau individuava come «il tecnico e il filosofo». Se certe qualità mancano, possono compromettere le sorti di tutti. Decidere richiede quindi non solo competenze, ma carattere e capacità. La politica dovrebbe essere un po’ come la Chiesa intesa da Papa Paolo VI: «esperta di umanità». E di umanità la politica ha bisogno per pulsare, pompare sangue alla democrazia e costruire le arterie della comunità.

L’Osservatore Romano – 2/4/2022