Irpin, sobborgo di Kiev. Qui c’è chi combatte, chi fugge, chi si nasconde. E c’è anche chi racconta. Attraverso parole, filmati, testimonianze. Brent Renaud, giornalista statunitense freelance di 51 anni, si trovava a Irpin proprio per questo: svolgere il lavoro di giornalista che, come ha detto Papa Francesco, richiede di «ascoltare, approfondire, raccontare».
Ieri, mentre filmava la fuga di alcuni profughi dal terreno di guerra, Renaud è stato ucciso dalle truppe russe nei pressi di un checkpoint. Un proiettile lo ha raggiunto al collo. Il giornalista è morto sul colpo.
Lo ha raccontato un suo collega rimasto ferito nello stesso attacco: sdraiato sulla barella di un ospedale, ancora ignaro della sorte di Renaud, il sopravvissuto invoca non il collega, ma «il mio amico».
Sì, perché, in questi giorni di guerra i giornalisti non stanno solo lavorando. Gli inviati che ancora si trovano in Ucraina costruiscono relazioni, condividono emozioni, immagazzinano ricordi, affrontano paure. Ogni giorno. Insieme. «Consumano la suola delle scarpe» con «passione e coraggio», volendo ancora usare le parole di Papa Francesco.
Lo sa bene Nello Scavo, inviato speciale in Ucraina per il quotidiano Avvenire, tornato da poco in Italia, ma già pronto a ripartire. «Il giornalismo sul campo è un giornalismo di presenza, testimonianza e prossimità», dice al nostro giornale, «le poche cose di cui abbiamo bisogno sono gli occhi e, come diceva Čechov, un paio di scarpe buone e un quaderno di appunti». E se quello dell’informazione è un mondo sempre più in difficoltà e in trasformazione, è altrettanto vero che «per il giornalismo tradizionale, la guerra in Ucraina rappresenta una “rivincita” sui nuovi mezzi di comunicazione — aggiunge Scavo —. Se attraverso i social network ci eravamo convinti di poter avere un’informazione esaustiva, ora abbiamo capito l’importanza del patto che il giornalista sul campo stabilisce col lettore. Io provo a raccontarti ciò che vedo e a darti un contesto. Ma non posso raccontare ciò che non vedo. Se mi trovo su una barricata di Kiev, quel racconto specifico diventa il racconto di tutta la guerra. La singola storia assume universalità. Il lettore si deve fidare e deve premiare gli occhi del giornalista, che dev’essere anche in grado di selezionare i fatti».
E che ci sia bisogno di testimoni sul campo lo ha ribadito Papa Francesco quando, all’Angelus del 6 marzo, ha ringraziato i giornalisti che, «per garantire l’informazione, mettono a rischio la propria vita»: questo servizio «ci permette di essere vicini al dramma di quella popolazione e di valutare la crudeltà di una guerra».
«Un lavoro complicatissimo — osserva Scavo — soprattutto quando, davanti agli occhi, ci sono scene tanto violente». Allora è importante riuscire a mettere da parte le emozioni per dedicarsi solo al racconto. «È una questione di indole, creatività, cultura personale e tanta esperienza sul campo. Il giornalista — aggiunge l’inviato — deve conservare il pudore delle proprie emozioni. Certo, è bene che qualcosa arrivi al lettore, perché siamo esseri umani. Ma la prima regola di questo lavoro è etica: la notizia viene prima di tutto».
Dietro il risultato finale, c’è un lavoro enorme di organizzazione e logistica. «Bisogna pensare a tutti gli imprevisti — ribadisce Scavo — il taglio della comunicazione, i telefoni satellitari, l’equipaggiamento. Conta anche il lavoro di squadra. Scoppiata la guerra, tutti gli inviati andavano nel Donbass. Io e pochi altri siamo invece rimasti a Kiev. Abbiamo raccontato i fatti da lì perché credevamo che, in pochi giorni, sarebbe avvenuto qualcosa di storico».
A proposito del giornalista statunitense ucciso, Nello Scavo non ricorda di averlo incrociato in Ucraina: «Sono stato a Irpin, proprio il giorno prima che i russi prendessero il controllo e bersagliassero di colpi i colleghi di Sky Uk. Niente è davvero prevedibile».
Cosa c’è ora nei ricordi di Nello Scavo? Le immagini della guerra, certo. Ma c’è spazio anche per i simboli di speranza. «Una mattina, con i miei colleghi, esco dal bunker. Cerchiamo persone, volti, storie. Eravamo nella settimana di carnevale. Per strada, troviamo dei bambini mascherati. Sono vicino a un chiosco miracolosamente aperto. Finiamo per ritrovarci con gli sfollati a mangiare e a bere. Nonostante le bombe e gli allarmi. Per un attimo, abbiamo tutti sconfitto la paura. Ce lo hanno dimostrato i bambini: la paura si può sconfiggere. Così come la speranza va sempre cercata».
L‘Osservatore Romano – 14/3/2022