Ad Abu Dhabi si è tenuta la dodicesima assemblea dell’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili (Irena). L’incontro ha riunito più di mille delegati provenienti da 137 paesi, tra cui capi di Stato e ministri. Si è parlato di transizione energetica, stabilendo un obiettivo: passare dall’impegno all’azione.

Un’azione che, secondo Antònio Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, richiede a governi e settore privato di «formare coalizioni che aiutino la transizione energetica nei Paesi in via di sviluppo».

All’interno del forum sono stati affrontati temi che, se analizzati, possono essere utili per tracciare il futuro della rivoluzione energetica. Si è parlato, ad esempio, dell’idrogeno. Secondo una nuova analisi dell’Irena, la crescita dell’economia globale dell’idrogeno potrebbe generare significativi cambiamenti economici e geopolitici, scaturendo così un’ondata di nuove interdipendenze. Ovviamente, ciò andrebbe a compromettere il mercato tradizionale di carbone, petrolio e gas. Irena stima infatti che l’idrogeno potrebbe coprire fino al 12% del consumo energetico globale entro il 2050.

Ma è tutto così facile? Secondo Nicola Armaroli, dirigente di ricerca presso il Consiglio nazionale delle Ricerche, non proprio. Al nostro giornale, Armaroli spiega che «l’idrogeno molecolare è quasi inesistente sulla Terra, perciò deve essere prodotto. Non è una fonte di energia come il petrolio o il sole, ma un gas capace di convertire una forma di energia in un’altra. Ad esempio – prosegue Armaroli – si può produrre idrogeno dall’acqua, utilizzando dispositivi chiamati elettrolizzatori, alimentabili da un pannello solare. L’idrogeno ottenuto può generare elettricità in una cella a combustibile, in grado di alimentare un automezzo a idrogeno. Questo produce acqua di scarto e, così, il ciclo può ricominciare».

«Tutto facile sulla carta, ma molto difficile nella pratica», osserva però Armaroli: «la produzione di idrogeno è energivora e costosa». Dunque, esistono alternative? «È molto più efficiente utilizzare l’elettricità iniziale del pannello per caricare un’auto a batteria, anziché passare attraverso l’idrogeno», risponde il chimico italiano, «gli usi energetici dell’idrogeno sono ancora limitati e cresceranno solo dopo il 2030». L’idrogeno oggi è usato nell’industria chimica e nelle raffinerie, ma qui emerge un altro problema: l’idrogeno «è prodotto dal metano, con grandi emissioni di CO2. L’ uso nel settore energetico si espanderà solo quando potremo produrlo in grandi quantità da fonti rinnovabili. Andrà utilizzato solo laddove non ci sono alternative facili per la decarbonizzazione: trasporto pesante, industrie energivore, come vetro e acciaio».

Insomma, ogni operazione vicina alla transizione energetica ha un costo. E il costo di certi cambiamenti, se fatti con scarsa visione, potrebbe essere alto. Soprattutto per imprese, famiglie e Paesi meno sviluppati. Proprio per questo motivo Amina Mohammed, vicesegretario generale delle Nazioni Unite, durante la conferenza dell’Irena ha evidenziato, tra le priorità urgenti, quella di avere una coalizione di finanza pubblica e privata per fornire pacchetti di sostegno ai Paesi più poveri.

«Il costo della transizione energetica è un tema che sta iniziando ad emergere», osserva al nostro giornale l’analista Gianclaudio Torlizzi. «Da un lato, implementare l’idrogeno comporterebbe una serie di nuovi investimenti infrastrutturali», prosegue Torlizzi, «dall’altro, però, la molecola di idrogeno è più piccola della molecola del gas. Quindi non tutti gli impianti che oggi lavorano il gas potranno far confluire anche le molecole di idrogeno, a meno che non si proceda ad un ammodernamento o ad una riconversione». Ciò significa che saranno necessari nuovi investimenti. E quindi nuovi costi. Ecco il problema: «il mercato non sembra ancora essere pronto a cambiamenti così forti», prosegue Torlizzi, «siamo in una situazione in cui la bolletta energetica è già a livelli alti. Bisogna evitare che i rincari energetici, parallelamente alla scarsa occupazione e ai salari bassi, diventino l’ennesimo problema sociale. Le questioni sono di carattere tecnico ed economico, ma il rischio più alto è quello sociale: l’emarginazione delle fasce deboli della popolazione».

A proposito dei Paesi meno sviluppati, durante la conferenza dell’Irena è stata data particolare attenzione al continente africano. Anche in Africa si sta cercando di tracciare un percorso verso la transizione energetica: secondo l’Irena, l’energia sostenibile in questo continente potrebbe portare ad un’ondata di nuovi investimenti e favorire una crescita del 6,4% entro il 2050. Anche qui, però, emerge un problema: oggi carbone, gas naturale e petrolio insieme rappresentano circa il 70 per cento della produzione totale di elettricità dell’Africa. Insomma, l’energia convenzionale attrae molti più finanziamenti rispetto alle energie rinnovabili. Che fare?

Simone Tagliapietra, ricercatore del Bruegel di Bruxelles e docente all’università Cattolica di Milano, parlando al nostro giornale, ribadisce che «la transizione in Africa non è solo possibile, ma anche necessaria». «Le energie rinnovabili – aggiunge Tagliapietra – rappresentano infatti il modo migliore per ampliare l’accesso all’energia nel continente. In particolare, l’energia solare può davvero fare la differenza anche in quelle zone rurali che, altrimenti, difficilmente potrebbero essere raggiunte dalla rete elettrica». Se da un lato molti Paesi africani spingono in questa direzione, dall’altro il cambiamento va sostenuto meglio dai Paesi sviluppati. «A questo proposito», prosegue Tagliapietra, «vanno esplorate nuove forme di cooperazione nord-sud, proprio come Unione europea, Stati Uniti e Regno Unito hanno fatto alla Cop26 di Glasgow per aiutare il Sud Africa ad abbandonare il carbone e velocizzare il percorso di crescita verde. Uno schema innovativo, basato su sostegno finanziario e tecnologico, che può essere replicato con altri Paesi africani».

L‘Osservatore Romano – 24/1/2022