Lungi dall’essere interpretato attraverso la lente del pacifismo universale, il cambio di paradigma imposto dall’amministrazione Trump sulla guerra in Ucraina rispecchia il nuovo modo degli Stati Uniti di relazionarsi col resto del mondo. Ed è emerso in modo limpido a Riyad, dove questa settimana due delegazioni di funzionari americani e russi si sono incontrate sì per avviare i negoziati per la pace in Ucraina, ma soprattutto per rilanciare i rapporti bilaterali tra Mosca e Washington.

Una normalizzazione delle relazioni apre la possibilità a un indebolimento dell’asse Mosca-Pechino, principali contendenti allo strapotere americano. Di riflesso, il presidente Trump avrebbe modo di confermare il primato statunitense nel mondo e di “rendere l’America di nuovo grande”, come recita l’arcinoto slogan repubblicano. La disposizione al dialogo dei russi va inquadrata secondo precise logiche geopolitiche: parlare con Washington consente a Mosca di essere più forte al tavolo dei negoziati, di ampliare le leve negoziali almeno a Crimea e Donbass, quindi di riconquistare credibilità nei confronti degli occidentali — con cui i russi hanno sempre fatto buoni affari, specie sul piano energetico, oggi parzialmente interrotti a causa delle sanzioni — e della Cina che, nonostante le dichiarazioni di alleanza “senza limiti”, si è ben vista dal manifestare esplicito supporto all’operazione militare moscovita e ha sempre richiamato le parti al dialogo in nome del multilateralismo.

Al contrario, la crescente tensione col presidente ucraino Volodymyr Zelensky è funzionale a mettere un freno agli sforzi economici e militari statunitensi in Ucraina che, a tre anni dall’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, ammontano a oltre 65 miliardi di dollari spesi in sistema di difesa aerea, artiglieria, elicotteri e carri armati. Questo darebbe a Washington l’opportunità di concentrare gli sforzi su teatri ritenuti prioritari. In primis, c’è l’Indo-Pacifico, strategico per contenere la Cina, lavorare materie prime a basso costo e accelerare la corsa al progresso tecnologico. Poi c’è il Medio Oriente e, con esso, i Paesi del Golfo, la cui centralità è stata ribadita dalla scelta di Riyad come luogo di dialogo tra potenze. Poco spazio sembra invece esserci per l’Europa. Nonostante i due summit organizzati dal presidente francese Emmanuel Macron a Parigi in cui diversi Paesi, europei e non, fatta eccezione per gli Usa, si sono riuniti per discutere del loro ruolo nella guerra contro l’Ucraina, essa non è riuscita a trovare una posizione unitaria. Tra lunedì e giovedì Trump riceverà Macron e il primo ministro britannico Keir Starmer, ma il presidente americano ha già detto che i due «non hanno fatto niente» per mettere fine alla guerra.

Di più, nonostante l’Unione europea vanti un commercio bilaterale con gli Usa superiore ai 900 miliardi di dollari e il fronte meridionale del Vecchio Continente affacci su un’area instabile come il Nord Africa in cui orbitano russi e turchi, l’assenza di una strategia unitaria rende i 27 incapaci di offrire qualcosa di concreto a Trump. Questo “do ut des” è però uno dei principali aspetti del nuovo modo americano di concepire il mondo. Lo si è visto questa settimana quando Trump ha ribadito la necessità di un accordo con Kyiv per la gestione delle terre rare. In questo modo, gli Usa stanno facendo capire che non s’impegneranno più gratuitamente o per uno spiccato senso di giustizia, bensì che avanzeranno sempre una contropartita economica o strategica. Un paradosso, se si pensa all’aggressione ricevuta dagli ucraini o al supporto offerto fino a pochi mesi fa dall’ex presidente Joe Biden, ma un esempio di come sta cambiando il mondo. Che impone agli europei di capire cosa poter offrire agli Usa, pena il rischio non solo di diventare ancora più deboli ma di perdere uno storico alleato.

L’Osservatore Romano – 22/2/2025