La scorsa settimana la vicepresidente delle Filippine Sara Duterte è stata messa sotto impeachment dalla Camera dei Rappresentanti dopo la petizione firmata da 240 deputati.
Anche se l’iniziativa dovrà essere confermata da almeno due terzi dei 24 componenti del Senato, essa è l’ennesima conferma dello scontro ai vertici del potere in atto, che vede come protagoniste le principali famiglie politiche locali, Marcos e Duterte.
La notizia può essere letta innanzitutto attraverso una chiave interna. Il prossimo 12 maggio i filippini voteranno per rinnovare i seggi della Camera bassa e un terzo degli scranni del Senato. In pieno stile americano — le Filippine sono state l’unica colonia statunitense (1905-1946) —, l’appuntamento di medio-termine è fondamentale per valutare il sentimento popolare in vista delle presidenziali del 2028. Nel frattempo, Marcos intende consolidare il potere legislativo, far approvare la legge di bilancio del 2025 senza troppi dibattiti e screditare la figura di Duterte, con cui ormai è in aperta conflittualità su temi che vanno dalla lotta al narcotraffico all’intelligence. Il punto più alto è stato raggiunto lo scorso novembre, quando la vicepresidente ha detto di aver dato ordine di uccidere il presidente in carica se lei stessa fosse stata uccisa.
Tra le accuse mosse a Sara Duterte, c’è anche l’incapacità di rispondere all’«assertività» di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. Ciò rivela come, infine, ci sia una dimensione geopolitica del conflitto che ha contrapposto persino i padri di Marcos e Duterte, entrambi ex presidenti delle Filippine. La famiglia Marcos sta favorendo l’interventismo americano nelle acque locali per affermare la sua sovranità sulla zona economica esclusiva — l’ultima esercitazione congiunta si è svolta la scorsa settimana. I Duterte, invece, di fronte ai recenti incidenti con la Guardia costiera cinese, hanno rimarcato la necessità di evitare scontri, e possibili ritorsioni, con il principale partner economico, insistendo su un modello di dialogo inaugurato nel 2018 con il “gentlmen’s agreement” firmato da Manila e Pechino, non riconosciuto però da Marcos Jr.
L’Osservatore Romano – 10/2/2025