Sono almeno tre i messaggi di speranza con cui si è risvegliata oggi la Repubblica Democratica del Congo. Il primo è il cessate-il-fuoco annunciato, dopo oltre una settimana di scontri e almeno 900 morti, dal gruppo di ribelli M23 sostenuto dal Rwanda per permettere l’arrivo degli aiuti umanitari. Poi, in una nota diffusa nella notte, l’M23 ha chiarito di «non avere alcuna intenzione di prendere il controllo di Bukavu o di altre località», scongiurando così l’ipotesi di un allargamento del conflitto, da molti previsto alla luce dell’avanzata dei giorni scorsi nel Sud-Kivu. Infine, lo spiraglio diplomatico: l’annuncio sul cessate-il-fuoco è arrivato poco dopo quello della partecipazione del presidente congolese Félix Tshisekedi e del presidente rwandese Paul Kagame al vertice regionale congiunto della Comunità degli Stati dell’Africa dell’est e della Comunità di sviluppo dell’Africa australe, che si terrà sabato in Tanzania.
Sembrano essere almeno due i fattori che hanno spinto il gruppo di ribelli a sancire la tregua, nonostante i notevoli risultati sul terreno — peraltro raggiunti senza particolari resistenze popolari.
Il primo è legato alla reazione della comunità internazionale. Nei giorni scorsi il G7 ha condannato con fermezza l’offensiva dei ribelli chiedendo di «porre fine ad ogni sostegno diretto e indiretto all’M23 e a tutti i gruppi armati non statali». G7 significa non solo Paesi europei, ma soprattutto Stati Uniti. Anche alla luce del progetto americano del corridoio ferroviario di Lobito — che collega l’Angola con lo Zambia attraverso la Repubblica Democratica del Congo ed è necessario sia a contrastare l’ascesa cinese in Africa sia ad alimentare il flusso di risorse naturali —, negli ultimi giorni l’attività del segretario di Stato americano Marco Rubio è stata molto intensa. Oltre ad aver parlato con il presidente congolese, Rubio ha fatto pressione su Kagame e, per evitare l’inasprirsi dei rapporti, è probabile che l’M23 e il Rwanda abbiano allentato la presa.
C’è poi un secondo fattore che, come sottolinea ai media vaticani l’analista della Fondazione Med-Or Luciano Pollichieni, «è legato al modo in cui i ribelli si sono presentati a Goma. Come documentato dalle Nazioni Unite, dopo gli scontri con l’esercito congolese, l’M23 ha iniziato a reclutare personale locale per la gestione amministrativa della città e, nel frattempo, si è ben guardato dal seminare il panico sparando sui civili o saccheggiando la città. Dunque, i ribelli potrebbero usare l’avanzata sul Kivu come leva negoziale per ottenere una presenza politica continuativa su Goma».
Tutto dipenderà dall’incontro di sabato tra Tshisekedi e Kagame. Nel frattempo, il vescovo di Goma Willy Ngumbi Ngengele, parlando all’agenzia Fides, fa sapere che «la città è calma ma la popolazione ha ancora paura di uscire di casa perché la sicurezza non è completamente garantita».
Tra scuole chiuse, ospedali sovraffollati e soppressione dei campi profughi in cui vivono oltre un milione di persone, dalla periferia di Goma due suore raggiunte dai media vaticani fanno sapere che «la situazione si è calmata ma nella nostra parrocchia ci sono tantissimi rifugiati, soprattutto donne e bambini. Siamo stati due giorni senza mangiare. Con noi avevamo solo 25 sacchi di riso. Una cisterna d’acqua da 15 metri cubi costa 50 dollari, ma non è durata neanche due giorni. L’elettricità va e viene, è difficile comunicare con l’esterno». Storie di drammatica quotidianità che invocano una sola necessità: fare presto.
L’Osservatore Romano – 04/02/2025