Attivista incallita, pessimista non pentita, caustica, lapidaria, a volte sarcastica, da cinque anni a questa parte Greta Thunberg non è mai scomparsa dalle scene. Neanche adesso. Certo, se prima capitava di vederla alle Nazioni Unite, al Forum economico di Davos e nei parlamenti di mezzo mondo, ora appare spesso in manette o trascinata dalle forze dell’ordine dentro camionette della polizia: da Londra a Copenaghen fino a Oslo, Malmö, L’Aia e Lützerath.

No, Thunberg non è diventata un’ultrà né – almeno all’apparenza – sta attraversando alcun dramma post-adolescenziale. Piuttosto, se nel novembre 2022 la ventunenne svedese aveva detto di voler lasciare ad altri il «megafono della protesta» perché non sapeva cosa fare della sua vita, ora una strada sembra averla trovata: incarnare l’ultima tendenza woke secondo cui se si protesta per una cosa bisogna protestare per tutto.

Insomma, il clima non basta più. Si veda alla voce slogan. Compiuta la transizione da «cambiamento climatico» a «emergenza climatica», Thunberg ha aggiunto nuovi mantra come «la Palestina sarà libera» o «io sto col Balucistan».

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