Neanche il governo di Michel Barnier ce l’ha fatta. Dopo la brevissima esperienza del giovane Gabriel Attal, il premier francese appartenente al partito Les Republicains è crollato dopo appena due mesi e 29 giorni, diventando così il leader del governo più breve della Quinta Repubblica. Era stato nominato dal presidente Emmanuel Macron a seguito delle elezioni dello scorso giugno.

E il punto sta proprio qui: le elezioni avevano dipinto un altro Paese rispetto a quello rappresentato dal governo Barnier. A giugno il Nouveau Front Populaire (Nfp, sinistra) aveva ottenuto il 25 per cento dei voti e 178 seggi, mentre il Rassemblement National (Rn, destra) il 37 per cento dei voti e 142 seggi. Nessuno di questi due partiti ha fatto parte del governo, rappresentato da un primo ministro sì navigato ma esponente di un partito fermo all’8 per cento delle preferenze e da ministri voluti da Macron (23 per cento dei voti).

Dunque, il governo Barnier è crollato perché i francesi hanno percepito ancora una volta la paralisi della politica, il venir meno delle istanze popolari e dei desideri espressi solo pochi mesi fa. Cosa non da poco per un popolo come questo. Di conseguenza, movimenti tanto popolari quanto estremisti come Nfp o Rn hanno tirato la corda e sono persino finiti per votare la stessa mozione di sfiducia a Barnier. Obiettivo: minare ulteriormente la popolarità di Macron (il 52 per cento dei francesi ne chiede le dimissioni, secondo un sondaggio Ipsos), facendo capire che il suo progetto a livello interno ha fallito, che la Francia è un Paese diverso, a tratti peggiore, rispetto a pochi anni fa e che, fino al 2027, anno delle prossime elezioni presidenziali, non si scenderà ad altri compromessi.

Il capo dello Stato francese parlerà oggi alle 20. Difficilmente farà un passo indietro. Al contrario, si vocifera che voglia trovare un governo in 24 ore pur di mantenere il potere. Perciò, la scelta potrebbe ricadere su figure tecniche: una cosa che in Francia non si vede dal 1877. Anticipare la data delle elezioni presidenziali non converrebbe tanto a Macron, che non vuole apparire debole specie sul fronte internazionale: tornato dall’Arabia Saudita, riceverà Donald Trump questo fine settimana, rivendica i successi nella mediazione tra Libano e Israele, così come nel ruolo svolto dalla Francia in Ucraina, ancor più con una Germania altrettanto debole. Quanto all’opposizione, a giugno la sinistra si è dimostrata incapace di presentare nomi adatti a governare, mentre la leader della destra Marine Le Pen è alle prese con un processo per utilizzo improprio di fondi europei e impieghi fittizi.

Dietro il caos della politica si nasconde l’anima di un Paese frammentato e smarrito. L’aspetto più importante è questo perché, inevitabilmente, si riflette su molteplici scenari. In primis, quello sociale. La violenza in Francia cresce, come dimostrano le 85 manifestazioni in tutto il Paese da parte degli agricoltori contrari all’accordo tra Ue e Mercosur, le sparatorie di Poitiers con vittime adolescenti, le risse sui treni come quella di Ozoir-la-Ferrière (trenta chilometri da Parigi) e il caos nei territori d’Oltremare, spesso dimenticati ma strategici per la proiezione dell’ormai dimenticata grandeur. Ben lontana dalle dinamiche del potere, la popolazione si preoccupa per la sicurezza, il controllo della migrazione e la stabilità dell’economia.

Persino colossi francesi come Michelin e Auchan hanno annunciato tagli di posti di lavoro: il primo produttore mondiale di pneumatici chiuderà due impianti a Cholet e Vannes con 1.254 lavoratori, la catena alimentare ha annunciato il taglio di 2.389 posti di lavoro. A novembre il ministro dell’Economia, Antoine Armand, aveva tuonato contro la settimana lavorativa di 35 ore che, nel 2000, era stata presentata come un vanto nazionale: lo slogan «lavorare meno per lavorare tutti» sta pesando sul macigno del debito pubblico.

In Francia il 2024 si chiuderà con un deficit almeno al 6,2 per cento, ben oltre le stime, e con un debito pubblico oltre il 110 per cento (era al 65 per cento nel 2007). Barnier voleva ridurre il deficit al 5 per cento nel 2025 e al 3 per cento entro il 2029, due anni dopo le richieste della Commissione europea, con un aggiustamento fiscale da circa 60 miliardi di euro, composto per due terzi di tagli alla spesa e un terzo di aumenti di imposte (extraprofitti delle grandi imprese, redditi più elevati, energia elettrica, taglio del rimborso dei farmaci).

Più di ogni altra cosa, è in questo che il modello verticistico francese, incentrato su un potere calato dall’alto, ha fallito: interpretare le necessità del proprio Paese e adattarle al mondo che cambia. Mettere un’altra toppa non risolverà il problema.

L’Osservatore Romano – 5/12/2024