In Corea del Sud non si parlava di legge marziale dal 1979. Quell’anno è importante nella storia sudcoreana perché funge da spartiacque. Nel 1979 il generale al potere Park Chung-hee viene assassinato e, nel dicembre dello stesso anno, dopo aver imposto una legge marziale a livello nazionale, il generale Chun Doo-hwan ordina l’ennesimo colpo di stato con cui si sospende la Costituzione e si vietano le attività politiche: nel 1980 inizia così la Quinta Repubblica.
Apparentemente, nulla cambia. La Corea del Sud fu costituita come entità separata dalla Corea del Nord nel 1948 sotto la presidenza di Syngman Rhee, un regime democratico in apparenza ma con pratiche autoritarie. Dopo la Rivoluzione d’aprile e una breve parentesi democratica, il generale Park Chung-hee prese il potere con un colpo di stato nel 1961, dando vita prima alla Terza e poi alla Quarta Repubblica con la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale nel 1971.
In realtà, nel 1979, mentre Park viene assassinato e Chun prende il potere, a Gwangju, città meridionale della Corea del Sud, studenti e attivisti iniziano a riunirsi per chiedere la fine della legge marziale e ragionare su riforme democratiche. Il 18 maggio 1980 gli studenti dell’università di Chonnam avviano le proteste, ma il regime risponde con la violenza. Unità delle forze speciali, dotate di armi, manganelli e gas lacrimogeni, vengono dispiegate in tutta la città. Il 27 maggio 1980 le truppe governative lanciano un assalto che scatena numeri da bollettino di guerra: mentre le stime ufficiali parlano di 200-300 vittime, fonti indipendenti parlano di oltre mille morti, tra cui tantissimi giovani.
Il regime di Chun cerca di sopprimere ogni informazione, definendo i partecipanti rivoltosi e comunisti. Eppure, l’insurrezione di Gwangju diviene un simbolo, così come la morte dell’attivista studentesco Park Jong-chul, torturato a morte dalla polizia pochi anni dopo. I primi movimenti di democratizzazione del Paese diventano sempre più forti e popolari.
Anche perché la democrazia è il nuovo obiettivo della Corea del Sud, da sempre vicina al blocco americano e intenzionata ad approfittare delle debolezze sovietiche. I regimi autoritari locali sono riusciti a garantire una crescita economica al Paese: negli anni Ottanta i tassi di crescita oscillano tra il 5 e il 10 per cento, il pil pro-capite aumenta, le grandi imprese (“chaebol”) come Samsung, Hyundai e LG ricevono supporto dallo Stato e si espandono nel mondo. Ma democrazia significa libertà e, soprattutto, significa immedesimazione nella American way of life.
Quando nel 1987 Chun annuncia che il suo successore sarebbe stato scelto dal Collegio Elettorale, in tutto il Paese milioni di cittadini, capeggiati da studenti e movimenti sindacali, si riuniscono per portare avanti la “lotta democratica di giugno”. L’immagine della folla radunata a Seoul per il funerale di Lee Han-yeol, altro studente morto per mano del regime, diventa iconica. Con le Olimpiadi di Seoul del 1988 l’attenzione internazionale aumenta la pressione – specie da parte di Washington – affinché il regime risolva i disordini. Così, tutto cambia. Il 29 giugno 1987 il successore di Chun, Roh Tae-woo, annuncia le tanto attese riforme democratiche: elezioni presidenziali dirette, allentamento della repressione e libertà per i media. Solo nel 1992, con l’elezione di Kim Young-sam, arriva la fine del dominio autoritario. Oggi, con un Pil nominale stimato attorno ai 1.800 miliardi di dollari nel 2023 e un sistema basato sull’export tecnologico, la Corea del Sud è la quarta economia asiatica e una delle dieci maggiori a livello globale. Ma se ne leggessimo la storia entro meri termini economicisti, non capiremmo perché questo Paese ha sempre avuto grandi rischi di instabilità, che pesano ancora oggi su un immaginario collettivo sì debole a causa dei tanti problemi, ma unito nel timore di un ritorno al passato.
L’Osservatore Romano – 4/12/2024