Su Instagram circolano spesso foto in cui gli utenti, messi di fronte a un elenco di città, spuntano con una X quelle che hanno visitato. L’obiettivo, evidente seppur celato, è mostrare ai propri followers in quante parti del mondo si è stati.

Niente di impossibile, specie per i più giovani, se si pensa che oggi viaggiare con certe compagnie può costare pochissimo e richiede sempre meno tempo. Uno studio di Compass Lexecon ha osservato che un volo tra Los Angeles e Boston costava 4.439 dollari nel 1941, 915,82 dollari nel 1978, 408,89 nel 2015 e 119,67 nel 2024. Dal 1941 ad oggi la durata di questo volo è diminuita di dieci ore, passando da 15 a 5 ore. In estate la compagnia Wizz Air ha lanciato «all you can fly»: pagando 599 euro in un anno e aggiungendo un supplemento per tratta, «si può volare tutte le volte che si vuole», recita lo slogan. L’offerta è esaurita in pochi giorni. Nulla possono i supplementi per il bagaglio a mano perché ormai spopolano gli zaini fatti su misura per essere capienti ed entrare nelle cappelliere. Poi ci sono gli affitti brevi per il pernottamento, le metropolitane e i taxi a basso costo per gli spostamenti, le guide turistiche sui social e le recensioni dei ristoranti per risparmiare tempo. In Italia, nel primo semestre 2024, c’è stata una crescita dei passeggeri di oltre il 12 per cento rispetto all’anno record del 2023 in cui hanno viaggiato 197 milioni di persone.

Lo chiamano «overtourism» cioè, come recita l’organizzazione mondiale del Turismo, «l’impatto del turismo su una destinazione, o parti di essa, che influenza eccessivamente e negativamente la qualità della vita percepita dei cittadini e/o la qualità delle esperienze dei visitatori». Con più fantasia, gli autori della pagina Instagram The Roman Post hanno sintetizzato così: «Quest’anno c’era più gente in Giappone che al Circeo». E non c’è niente di male: la varietà del mondo sta diventando accessibile a un numero sempre maggiore di persone, il contatto con la bellezza e con il divertimento è più diretto.

Eppure, in questo appuntamento di #CantiereGiovani abbiamo cercato di andare oltre: da dove deriva questa esigenza sfrenata di fare dei viaggi mentre, fino a pochi decenni fa, esisteva «il viaggio»?

L’overtourism non è solo un fenomeno tipico della società del consumo. Ammesse le dinamiche economiche e i cambiamenti tecnologici, crediamo ci sia altro, dietro, che riguarda l’essere umano, la società in senso più ampio e, in primis, proprio i più giovani. Che, oberati dai ritmi di una società frenetica, immersi in famiglie disunite e disorientati dai sistemi educativi, quindi incapaci di trovare stimoli e (s)punti di riferimento, spesso privati di un senso di appartenenza comunitario come quello politico o sociale, fragili per definizione anagrafica, sentitisi in gabbia ai tempi del Covid-19, decidono di partire. Chi per seguire la massa, chi per divertirsi, distrarsi, estraniarsi, conoscere, incontrare.

A una condizione, sposata da molti: che si viaggi non verso l’interno bensì verso l’esterno. La ricerca del nuovo è l’antidoto per combattere la noia e la quotidianità brevettato da una società immersa «in una cultura segnata dalla rinuncia alla ricerca della verità», volendo riprendere le parole di Papa Francesco all’università di Louvain. Niente più spazio per la riflessione, la letteratura, l’arte e tutto ciò che, osservava il pontefice nella lettera sul ruolo della letteratura, «è capace di dare all’essere umano quel potere empatico dell’immaginazione, veicolo fondamentale per la capacità di identificazione», «senza la quale non si dà solidarietà, condivisione, compassione, misericordia».

Ora bisogna viaggiare. E, nel farlo, non c’è tempo per riflettere ma occorre stancarsi per non staccare mai. Bisogna vedere tutto. Le mete raggiunte vanno esposte sui social per dimostrare che si è vivi, che si sta facendo qualcosa d’interessante da trasformare, poi, in oggetto di conversazione. E più lontano si va, più si è, meglio è. Il prefisso «over» nasce e cresce qui. In grammatica, per indicare un eccesso e un movimento. Nella realtà, rappresenta l’assenza del limite, il non volersi accontentare, l’andare oltre per non andare in profondità, la corsa verso l’infinito motivata dall’incapacità di saper trovare il nuovo nell’uguale di ogni giorno. Con l’inversione dell’essenziale e del superfluo, si finisce per viaggiare non per «avere nuovi occhi» – citando Marcel Proust – bensì per staccare dal proprio mondo.

Allora il viaggio non è più un’esperienza. È un esperimento. La proliferazione dei «viaggi organizzati» lo dimostra. Studiare ogni dettaglio pur di evitare la casualità elimina lo stupore, l’unicità dell’imprevisto, la meraviglia. Soprattutto, il viaggio organizzato è un controsenso. Perché crea non un’esperienza bensì un esperimento. L’esperienza cambia l’essere umano ma, affinché ciò avvenga, bisogna perdere il controllo e farsi cogliere dall’imprevisto. L’esperimento, invece, fa scivolare in una realtà da cui, più prima che poi, si esce. Almeno fino al momento in cui, volendo essere fiduciosi, non si raggiungerà quella meta capace di far allargare la propria anima, la propria umanità.

L’Osservatore Romano – 19/10/2024