Vietare le auto cinesi negli Stati Uniti. È questo il cuore dell’iniziativa con cui, lunedì, il dipartimento del Commercio americano ha proposto di bandire l’installazione di software e hardware cinesi – telecamere, microfoni, Gps e simili – nei veicoli dotati di connessione internet integrata.
In linea con la tariffa del 100 per cento sui veicoli elettrici fabbricati in Cina voluta dall’amministrazione Biden, la proposta diventerà norma definitiva dopo un periodo di commento pubblico di 30 giorni. Attraverso Lin Jian, portavoce del ministero degli Esteri, la Repubblica Popolare ha detto che «si oppone all’ampliamento del concetto di sicurezza nazionale da parte degli Stati Uniti e alle ripetute azioni discriminatorie intraprese contro aziende e prodotti cinesi».
La notizia va però oltre il mero scontro commerciale tra Washington e Pechino. Innanzitutto, essa rivela il modo in cui sta cambiando la concezione della sicurezza nazionale. Prima la pandemia, ora la frammentazione geopolitica stanno provocando un arretramento nel grado di integrazione economica fra regioni del mondo. Di conseguenza, il modo in cui gli Stati pensano e agiscono sta cambiando.
Il ritorno della politica industriale e commerciale – con cui oggi non s’intende più il solo «Stato imprenditore» bensì tutta una gamma di strumenti e obiettivi da promuovere nell’interesse pubblico – è un chiaro esempio di come i rischi geopolitici influenzino le scelte economiche. Negli Usa circolano poche auto cinesi. Tuttavia, un’ampia gamma di fornitori legati alla Cina (come BYD o CATL) sta diventando rilevante per l’industria automobilistica americana. Allo stesso modo, alcune case automobilistiche occidentali vendono veicoli fabbricati in Cina nel mercato americano. Le motivazioni dei dazi o delle limitazioni Usa sono chiare: limitare la presenza straniera ritenuta ostile e compromettere l’avanzata dei colossi automobilistici cinesi – che, oggi, rappresentano il 30 per cento del mercato globale e il 60 per cento di quello dei veicoli elettrici.
Come ha specificato il segretario al Commercio Gian Raimondo, «l’Europa e altre regioni del mondo in cui i veicoli cinesi sono diventati comuni molto rapidamente dovrebbero fungere da ammonitore». In effetti, il caso europeo è piuttosto esemplare.
Per perseguire obiettivi ambientali e ridurre le emissioni, Bruxelles ha aumentato le importazioni di auto elettriche e di materie prime necessarie alla transizione energetica. Tra tutti, la Cina oggi fornisce il 100 per cento di terre rare usate dall’Ue e nel 2023 ha importato il 17,7 per cento delle auto vendute in Ue – con una crescita del 37,1 per cento rispetto al 2022. Ammesse le nobili ambizioni, due decisioni fanno storcere il naso. La prima: voler trasformare l’industria automobilistica passando, in neanche quindici anni e senza un’autonomia energetica sufficiente, alla sola produzione di veicoli elettrici. Poi, la decisione di promuovere dazi sui veicoli elettrici cinesi.
Risultato: crisi dell’auto europea. Lo testimonia la decisione del gruppo Volkswagen che, per la prima volta, aprirà una stagione di licenziamenti. A far barcollare la produzione ci pensano la concorrenza, la rigidità delle norme e gli alti costi della transizione. L’Europa è indietro pure nelle infrastrutture. Secondo ACEA, la Commissione prevede 3,5 milioni di punti di ricarica per le auto elettriche entro il 2030, quindi circa 410.000 all’anno, ma nel 2023 ne sono stati installati appena 153.000. Paesi Bassi, Francia e Germania ospitano da soli il 61 per cento di tutti i punti di ricarica in Europa. Il restante è distribuito tra 24 Stati membri che coprono quasi l’80 per cento della superficie regionale.
Non bastavano inflazione e colli di bottiglia a complicare la sopravvivenza di un settore che impiega circa 12,9 milioni di lavoratori europei, rappresenta il 7 per cento del pil dell’Ue, genera 392,9 miliardi di euro di entrate fiscali e un surplus commerciale di 101,9 miliardi di euro (dati ACEA). Le incognite per lavoratori e consumatori sono evidenti.
E, ancora una volta, l’Europa si divide. Contro chi sostiene che l’intervento pubblico ha generato fin troppi danni e va allentato, il rapporto firmato da Mario Draghi lancia l’allarme: l’Ue ha bisogno di una «strategia industriale» coordinata. Di fronte a un simile passaggio d’epoca, l’autorità pubblica non può tirarsi indietro.
L’Osservatore Romano – 25/9/2024