Nel 1978 è stato il più giovane deputato di Francia, nel 2024 è il più anziano primo ministro della Quinta Repubblica: sabato sera è nato il nuovo governo francese guidato da Michel Barnier. 73 anni, di cui 51 spesi in politica, deputato, senatore e ministro in patria, capo negoziatore per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, spesso definito un gollista sociale, Barnier guiderà un esecutivo chiamato da molti «droite Trocadero».
In effetti, i capi scelti per i singoli dicasteri non lasciano dubbi. Se da un lato si vogliono evitare frizioni con il presidente della Repubblica Emmanuel Macron e, quindi, al ministero delle Forze armate è stato confermato Sébastien Lecornu, agli Affari esteri è stato nominato Jean-Noël Barrot e all’economia Antoine Armand, dall’altro i repubblicani hanno ottenuto ministeri come quello dell’Interno (Bruno Retailleau), dell’Istruzione (Patrick Hetzel) e dell’Agricoltura (Laurence Garnier). Risultati impensabili per un partito che, alle elezioni dello scorso giugno, non era andato oltre al 7 per cento. Nonostante le settimane di trattative, l’obiettivo di Macron di formare un governo di unità nazionale non è comunque stato raggiunto: l’unico socialista è Didier Migaud alla Giustizia.
Al di là dei nomi, contano le sfide dell’esecutivo. Consapevoli che in Francia i temi rilevanti sono coordinati dal presidente della Repubblica, il governo Barnier dovrà innanzitutto gestire un debito importante, far approvare il bilancio 2025 e ridurre la spesa pubblica. Obiettivo: convincere la Commissione europea sforzandosi di riportare il deficit nazionale dal 6,2 per cento previsto per il 2025 al 3 per cento. Non sarà facile. Sia perché il caso Thierry Breton, esponente di spicco della prima commissione di Ursula von der Leyen che ha dato le dimissioni accusando la presidente di ricatto politico nei confronti di Macron, testimonia l’accentramento di potere nelle mani del Partito popolare europeo e, quindi, la debolezza francese. Sia perché, per la prima volta dal 2013, dopo l’agenzia di rating Fitch, a giugno anche Standard & Poor’s ha abbassato il rating sulla qualità del debito francese.
Peraltro, sebbene il potere d’acquisto dei cittadini francesi sia aumentato del 6,6 per cento dal 2019, la sua distribuzione è disomogenea a causa di inflazione e divisioni geografiche. In questo senso, ulteriore compito del governo Barnier sarà quello di avviare politiche sociali capaci di ricostruire le fondamenta di un Paese frammentato e deluso. Come certifica l’istituto Paul Delouvrier, nel 2023 – per il secondo anno consecutivo – l’opinione dei francesi sui servizi pubblici è peggiorata.
Da oltralpe ci si lamenta della sanità e dell’istruzione, entrambe caratterizzate dallo scontro tra pubblico e privato. Oltre agli scioperi per le nuove tariffe ospedaliere, per la scuola «a due velocità» e per l’abbandono scolastico, c’è poi la delicata questione dell’antisemitismo e delle proteste nelle università più prestigiose generate dal conflitto in Medio Oriente. Ma il vero spartiacque è l’immigrazione e il senso di insicurezza provato da molti francesi – spinti, anche per questo motivo, a supportare il Rassemblement National di Marine Le Pen. Mentre in Germania e nei Paesi Bassi si parla sempre più di controlli alle frontiere, cosa avverrà in Francia?
Problemi simili non vanno circoscritti solo a città o campagne. I territori d’oltremare sono in affanno. In Nuova Caledonia la popolazione indigena indipendentista è repressa con aggressioni, posti di blocco e tagli all’elettricità. La Martinica ha dovuto imporre il divieto di manifestazioni a causa della violenza urbana per il carovita.
Tutto ciò rischia di alimentare il disinnamoramento dei francesi nei confronti della politica. Dopo gli alti numeri dell’astensionismo nel 2022 e il supporto ai partiti più estremisti lo scorso giugno, la popolazione sta ora sperimentando la paralisi di un sistema nazionale verticistico. Così Parigi sta perdendo fiducia in sé stessa e nella sua vocazione a proiettarsi nel mondo. E, in un periodo di transizione egemonica e frammentazione geopolitica, non cambiare può significare farsi cambiare.
L’Osservatore Romano – 23/9/2024