«Ma veramente?», è stata la domanda rivolta dalla giornalista italiana a Benedetta Pilato, diciannovenne di Taranto, quarto posto nella finale dei 100 rana femminili alle Olimpiadi di Parigi 2024, dopo che l’atleta in lacrime aveva spiegato di averci «provato fino alla fine. Peccato. Ma, nonostante tutto, è il giorno più felice della mia vita».
Nessuna cattiveria da parte della giornalista, piuttosto – ci piace pensare – una spontanea e improvvisa reazione alla diversità. Viviamo nell’epoca più competitiva di sempre. Quotidianamente si sente parlare di conflitti per il dominio del mondo, guerra commerciale, primato tecnologico, concorrenza, indici e classifiche da dominare, trend da cavalcare, velocità, individualismo, importanza dell’autorealizzazione e necessità sfrenata di trovare il proprio posto del mondo.
E i giovani? Sono davvero competitivi? Studiano, lavorano, si allenano, vivono per primeggiare in un mondo tanto complesso e conflittuale, oppure si accontentano del necessario? Ce lo domandiamo, in questo appuntamento estivo di #CantiereGiovani, non solo in riferimento alla felicità da «prima dei non eletti» di Pilato (per inciso: il primato dei quarti posti a Parigi 2024 è tutto italiano e, il prossimo 23 settembre, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella riceverà anche le «medaglie di legno»). Ce lo domandiamo perché, oggi, troppi ragazzi appaiono spenti, scoraggiati, indifferenti di fronte a ciò che li circonda.
In molti di loro mancano il desiderio, l’ambizione. Tormentati dal dilemma «prima la famiglia o prima il lavoro?», preferiscono non scegliere, restare impassibili. Tanti invece hanno paura di fallire perché non hanno le chiavi per comprendere il mondo dinamico descritto dagli adulti. In questo senso, si potrebbe dire che una causa di un simile atteggiamento va fatta risalire proprio alla fase della crescita. Di fronte ai problemi di un adolescente, c’è sempre una protezione offerta dall’adulto in cerca di essere il «genitore perfetto»: dolore e sofferenza vanno evitati, nella vita bisogna fare qualcosa che «ti piace», i figli non possono essere rimproverati a scuola né tantomeno possono prendere brutti voti, pur di non annoiarsi vengono sballottati a fare musica, sport, catechismo e inglese.
Ma poi? Quando si esce dal guscio e ci si butta nella mischia, cosa succede? Abbiamo maturato il gusto dell’ambizione e il senso del desiderio, il sapore della sfida e la smania del rimboccarsi le maniche per raggiungere un obiettivo? Insomma, i giovani sono capaci di cavarsela da soli senza rinunciare alle loro capacità, passioni e aspirazioni?
No, non tutti ne sono capaci. Chi per rinuncia, chi per rifiuto nei confronti di ciò che lo circonda, chi per indifferenza, di fronte ai dilemmi che, in realtà, dovrebbero segnare un rito di passaggio, tanti ragazzi entrano in una sorta di paralisi antropologica. Si credono inadatti al mondo. Smettono di essere giovani. Tra vincere o partecipare, rinunciano a entrambe le alternative. Lavorano o studiano non per passione, bensì per necessità.
A questo punto entra in gioco lo sport e queste Olimpiadi che, forse, andrebbero seguite non solo per il medagliere, quanto per cercare storie. Per citarne alcune, oltre alla felicità di Benedetta Pilato, si scoprirebbe Nada Hafez, la schermitrice egiziana uscita dai giochi col sorriso perché rivela di essere incinta di sette mesi. Oppure, si potrebbe pensare alla forza di Nathalie Moellhausen nonostante il tumore al coccige e all’oro sulla trave di Simone Biles dopo il ritiro a Tokyo 2020 per problemi legati alla salute mentale.
Ancora, alla determinazione del Settebello a far valere la propria idea dopo l’eliminazione e al racconto di Daniele Garozzo secondo cui «la narrativa romantica del guerriero spietato potrebbe essere affascinante nei racconti epici, ma nella realtà dello sport moderno è fuori luogo e anacronistica» perché «essere bravi ragazzi non significa essere deboli o meno competitivi». Infine, al sangue vomitato e alle lacrime versate da Gianmarco Tamberi che, dopo la paura di non farcela a causa dei problemi fisici, gareggia e supera l’asticella della vita, seppur mancando quella del salto in alto.
Eccola, allora, l’importanza della competitività. Che non significa vincere. Competere è un verbo formato dall’unione fra la preposizione latina «cum» e il verbo «petere»: andare insieme e andare verso. Avviare un percorso, tracciare un obiettivo, sacrificarsi, divertirsi, attendere. Poi concorrere, gareggiare, disputare. Non per primeggiare ma per essere. Sarebbe il modo migliore per riottenere quello stupore e quella meraviglia che troppo spesso mancano proprio ai giovani.
E per fare tutto ciò non bisogna mica essere dei professionisti. Anzi, la bellezza del dilettantismo, di chi, come etimologia latina insegna, «pratica un’attività per piacere» e, quindi, di chi agisce per amore, sta tutta qui. Nello sport come nella vita. Non a caso, il termine «dilettante» viene dal latino «dilectio», ossia «amore», e in francese e in inglese si traduce con «amateur».
L’Osservatore Romano – 14/8/2024