La sinistra inadatta a governare, la destra incapace di convincere, il centro illuso di rappresentare. “L’uomo maturo che s’avvia con coraggio verso il declino e che cura il suo esteriore perché non vuol lasciarsi andare” non è più solo Antoine Roquentin, il protagonista de La Nausea di Jean-Paul Sartre, ma l’intera Francia.

Posto che politica e società non sono monadi a sé stanti bensì rappresentazioni collettive degli individui che abitano un certo spazio in un determinato tempo, le elezioni legislative francesi, provocate dallo scioglimento dell’Assemblea nazionale da parte del presidente Emmanuel Macron, hanno rivelato il sentire comune d’Oltralpe: la consapevolezza di essere diventati impotenti di fronte al mondo che cambia e, allo stesso tempo, il timore di ammettere che l’epoca della grandeur è finita. Il rapporto dell’Institut Montaigne sulle fratture nazionali conferma: “l’85% dei francesi ritiene che il paese sia in declino e il 34% lo ritiene irreversibile”.

In effetti, dall’ultima campagna elettorale emerge che i francesi si sentono insicuri, non sanno come gestire l’immigrazione e la delinquenza, hanno grossi problemi col debito pubblico, sono preoccupati dall’inflazione e dalla riduzione del potere d’acquisto. Inoltre, discutono su quale debba essere il ruolo dello Stato a causa delle tante privatizzazioni, del collasso della sanità nazionale e della crisi del sistema educativo.

Chi ha votato l’estrema destra, Rassemblement National (Rn), o l’estrema sinistra, Nouveau Front Populaire (Nfp), è d’accordo su un punto: nonostante le promesse di Macron, la reputazione della Francia negli ultimi sette anni è peggiorata. Polarizzazione, instabilità e incomprensione sono elementi tipici di una società definita “violenta, arrabbiata e antiestablishment”. La politica, incapace di trovare veri leader, di cercare il compromesso e di avvicinarsi alla realtà, riflette la divisione in blocchi inconciliabili: oggi non esiste più una sola Francia. Esistono “le France”. Nulla di nuovo, se si pensa che la Gallia era “divisa in partes tres” già nel 58 a.C.

PARIGI CONTRO TUTTI

Oggi la frammentazione nazionale non è però legata soltanto a fattori geografici. Piuttosto, essa riflette gli aspetti storici e sociali del contesto in cui è maturata la Quinta Repubblica. Se Parigi o Lione votano in modo così tanto diverso da territori come l’Aisne o l’Alpes-de-Haute-Provence non è solo a causa della normale differenza tra aree urbane e rurali.

“Le campagne sono le prime vittime dello smantellamento dello Stato”, dice Maroun Eddé, filosofo e saggista, autore del libro La destruction de l’État, parlando a Limes: “La chiusura progressiva dei servizi pubblici (scuole, ospedali, tribunali) e la deindustrializzazione hanno svolto un ruolo importante per la crescita di Rn. Chi abita in aree del genere si sente abbandonato dallo Stato. Le fabbriche chiudono e la disoccupazione cresce. Gli agricoltori soffrono a causa della concorrenza internazionale e dei vincoli imposti dall’Unione Europea. I cittadini pagano le tasse ma non beneficiano dei servizi. Anzi, credono che le spese pubbliche servano ad alimentare immigrazione e assistenzialismo”.

C’è poi un divario culturale perché “le città sono ricche di diversità etnica, mentre le campagne no. E su questa differenza insistono i media. Tra tutti, la televisione, che svolge un ruolo cruciale nella diffusione di informazioni nei territori rurali e tra la popolazione più anziana. E che, almeno dal 2010, si sta sempre più concentrando nelle mani di pochi miliardari orientati a destra”. Prosegue Eddé: “Oggi si contano circa nove miliardari proprietari di quasi tutti i canali televisivi privati e più visti. Si pensi a Cnews, del conservatore Vincent Bolloré, i cui programmi sono concentrati solo su immigrazione, islam, declassamento del ceto medio”.

Ecco come si alimenta quel rapporto di repulsione e attrazione verso la città Stato. “Parigi è la capitale, il luogo del potere politico e, perciò, è associata a tutte le leggi impopolari”, spiega il caporedattore della rivista Conflits Jean-Baptiste Noé. “Facciamo un esempio recente: il limite di velocità sulle strade di campagna è passato da 90 a 80 chilometri orari. È una misura così impopolare da aver costretto il governo ad annullarla. I parigini sono stati accusati di aver preso questa misura poiché slegati dalla provincia. Ma la legge è stata promossa dall’ex primo ministro Edouard Philippe, normanno, sindaco di Le Havre, tutt’altro che parigino”. Noé sottolinea che “c’è poi un altro falso mito: la provincia paga per Parigi. L’Île-de-France è la prima regione economica d’Europa. Casomai, a livello di redistribuzione nazionale, Parigi paga per la provincia: la capitale dà più di quanto riceve”.

Peraltro, spiega Noé, “tutti i parigini provengono dalla provincia: non ci sono, salvo rare eccezioni, parigini da più di quattro generazioni. I provinciali sono andati a Parigi per trovare occupazione ad alto valore aggiunto. Così, mentre l’Ovest della Francia e l’Île-de-France votano Macron perché terra di centro e baluardo dei democratici cristiani, la parte occidentale di Parigi vanta oggi una popolazione di imprenditori e dirigenti che non si riconosce nel discorso politico di Jean-Luc Mélenchon né in quello di Marine Le Pen, il cui programma economico è molto socialista. È una terra di destra che vota Macron dal 2017”.

GENERAZIONI A CONFRONTO

Tracciare l’identikit di un elettore di Marine Le Pen non è cosa facile. Oltre 10 milioni di francesi votano il Rn. Si tratta di persone appartenenti alla classe popolare e a quella media. Sono soprattutto pensionati, disoccupati, operai, precari, adulti maschi tra i 50 e i 60 anni. In alcuni casi abitano nelle città (Marsiglia su tutte), più spesso vivono nella Francia rurale. Inoltre, la destra nazionalista è votata dal 32% dei cattolici francesi praticanti e da tanti ebrei convinti che il Nfp costituisca una minaccia.

A questa lista vanno poi aggiunti molti giovani, spesso attratti dall’uso che l’astro nascente del Rn, il ventottenne Jordan Bardella, ha fatto di social network come TikTok. “Se ci sorprendiamo di questa scelta, abbiamo una visione distorta dei ragazzi”, osserva Maroun Eddé. “Tantissimi under 30 abitano in aree rurali, iniziano a lavorare dopo la scuola dell’obbligo e sviluppano un forte orgoglio nazionale. Per molti di loro il patriottismo si trasforma in nazionalismo e in un voto radicale per il Rn”.

Si pensi al documento incentrato su “gioventù e guerra”, presentato a Sciences Po e commentato su Le Monde, secondo cui “il 51% dei giovani intervistati francesi si dice pronto o forse pronto a impegnarsi se la protezione della Francia richiedesse un intervento armato” e “in caso di guerra, il 57% è disposto ad arruolarsi”. Oltre a ciò, prosegue Eddé, “un estremismo alimenta l’altro. Se alcuni giovani votano Rn, lo fanno per respingere quelli che votano per la sinistra e viceversa. I divari politici sono molto più marcati tra i ragazzi a causa della predominanza di temi identitari e culturali: femminismo, razzismo ed ecologismo alimentano l’opposizione contro i fachos (i fascisti) o contro il woke”.

La difficoltà di comunicazione (basti pensare alle rivolte nelle università dello scorso marzo), la precarietà nel mondo del lavoro e l’inflazione rendono i giovani i più colpiti dalla crisi attuale. Due le soluzioni: l’astensionismo o la ricerca del cambiamento. Alle elezioni presidenziali del 2022 il 40% dei giovani tra i 18 e i 24 anni non aveva votato. La percentuale saliva a quasi il 70% con le elezioni legislative. A differenza degli over 70, nel 2024 gli elettori di età compresa tra i 18 e i 40 anni hanno dimostrato tutta la loro sfiducia nei confronti di Macron, votando principalmente per i due poli estremi (Rn e Nfp). In particolare, come registrato da Ipsos, il 48% dei francesi tra i 18 e 24 anni ha votato per il Nfp. Nelle università il 71% degli studenti si dichiara di sinistra.

Proprio le università possono diventare un ambiente in cui i giovani si approcciano alla politica. Ad esempio Khadidja, studentessa di scienze politiche presso la Sorbona di Parigi di origine egiziana e algerina senza cittadinanza francese (che quindi non ha il diritto di voto), ci racconta di essersi avvicinata alla politica grazie a due episodi: “Il primo è stato quando, a 15 anni, la mia famiglia è stata cacciata di casa dallo Stato. Il secondo coincide con l’iscrizione all’università e la constatazione di essermi trovata in un sistema educativo al collasso. Con la preparazione ai test accademici e l’inizio dell’università, la mia percezione della politica si è evoluta. La mancanza di giovani nella vita pubblica, la debolezza della democrazia partecipativa e la distanza dai temi cari alle nuove generazioni in Francia è desolante.”

Prosegue Khadidja, “ho così sviluppato una certa sensibilità nei confronti della politica estera, soprattutto quando si parla di Nord Africa e Medio Oriente. Inoltre, con l’associazione Cité des Chances incoraggiamo al voto i giovani che vivono nelle periferie, spesso vittime della retorica dell’estrema destra secondo cui l’immigrazione coincide con la delinquenza”.

DALLA TERRAFERMA ALL’OLTREMARE

Per un paese che vanta una delle Zone economiche esclusive più grandi al mondo, limitare le frammentazioni alla geografia interna o ai fattori generazionali è però riduttivo. La Francia non è solo Parigi: è Nuova Caledonia, Polinesia, Mayotte (quindi Indo-Pacifico), Guyana e Guadalupa (quindi America).

Se il panorama politico non è poi così diverso rispetto al 2022, Christophe Pipolo, direttore associato della società di consulenza strategica La Vigie, osserva come “il modo prematuro e spericolato con cui Macron ha sciolto l’Assemblea nazionale ha colpito soprattutto i territori d’Oltremare. La Nuova Caledonia è scossa da gruppi di rivoltosi che si nascondono dietro rivendicazioni autonomiste. In meno di un mese sono riusciti a mettere in pericolo l’economia locale. L’unico vantaggio tratto dall’enorme errore di valutazione di Macron è la sospensione della riforma del corpo elettorale dell’isola, altro dossier complicato e divisivo.” Continua Pipolo: “La Polinesia versa in una situazione simile. A Mayotte il colera colpisce sempre più persone. La violenza politica e l’esacerbazione delle tensioni hanno raggiunto limiti da cui è necessario tornare indietro insieme se vogliamo evitare gli ultimi eccessi americani e non far precipitare la democrazia nell’abisso”.

Più vicina ma altrettanto problematica è infine la situazione della Corsica. Nell’isola mediterranea, nota Jean-Baptiste Noé, “la vita politica è legata a clan e famiglie locali. I nazionalisti corsi sono socialisti nel pensiero politico e di sinistra nella visione sociale. La loro logica intellettuale è plasmata dal terzomondismo degli anni Sessanta: bisogna lottare contro i francesi che colonizzano l’isola e tessere alleanze con i popoli fratelli, in primis gli arabi”. Noé prosegue sottolineando che “l’economia dell’isola è in gran parte sotto le mani dei nazionalisti e delle loro aziende. La gestione della rete ferroviaria e degli aeroporti è stata condannata dalla Camera regionale dei conti perché non rispetta le regole della libera concorrenza. Ma l’ideale dei nazionalisti è chiaro: il partito di Stato deve occuparsi di tutti gli aspetti dell’isola”.

Nonostante ciò, gran parte degli isolani la pensa diversamente. I corsi, precisa Noé, “preferiscono un’autonomia regionale, non l’indipendenza. D’altronde, con 300 mila abitanti (tanti quanto Nizza), la Corsica non ha i mezzi per essere indipendente. I nazionalisti hanno un programma politico di sinistra che non corrisponde al pensiero dei corsi. Non vedono i francesi del continente come coloni né tantomeno i magrebini come fratelli”. Aggiunge Noé: “Nei dieci anni di governo i nazionalisti non hanno migliorato la qualità della vita della popolazione. Ci sono problemi nella gestione dei rifiuti, nella sanità e nell’energia. A preoccupare oggi i corsi non sono le grandi teorie nazionaliste, bensì la quotidianità. E da qui deriva tanto il fallimento elettorale dei nazionalisti quanto l’emergere di Mossa Palatina: un movimento identitario, liberale – cosa assai rara in Francia – e sostenitore di Israele”.

ON N’EST PAS SORTI DE L’AUBERGE !”

La contraddizione interna di un sistema portata all’estremo pare, oggi, la caratteristica fondamentale delle democrazie occidentali. Stati Uniti, Germania e Francia guidano la classifica. Occorre ricordare che la mancanza di coesione nazionale non è un fenomeno isolato. Il collegamento con la perdita di credibilità internazionale è immediato. Nel caso francese, si pensi alla disastrosa dissoluzione della Françafrique o ai vani tentativi fatti da Macron per intervenire nella guerra in Ucraina.

Parigi ha perso fiducia in sé stessa e nella sua vocazione a proiettarsi nel mondo. In un periodo di transizione egemonica e frammentazione geopolitica, non cambiare può significare farsi cambiare. Problema non da poco neanche per l’Italia, il cui destino è legato a quello dei suoi vicini. Starà a noi decidere quale postura assumere nei confronti dei nostri cugini d’Oltralpe.

Limes – 18/07/2024