Parlando di politica coi giovani abbiamo capito tre cose. Innanzitutto, che la crisi antropologica attraversata dall’Occidente ha sì segnato la vittoria dell’individualismo ma non ha del tutto annullato l’idea della politica come costruzione del vivere insieme. Piuttosto, il modo di concepire la politica si è trasformato. E i giovani lo testimoniano: se è vero che in diversi Paesi i picchi di astensionismo si registrano proprio tra gli under 30, è altrettanto vero che molti ragazzi ragionano spesso in termini politici.
Non lo fanno andando a votare o identificandosi in un partito, però. Fanno difficoltà gli adulti, figurarsi chi ha meno esperienza. Molti giovani individuano la “casa pubblica” in una serie di scelte individuali con conseguenze sociali: mettere su famiglia, frequentare l’università o iniziare a lavorare, trasferirsi in un altro Paese.
Insomma, «il voto è un modo disincarnato di concepire la politica — conferma Martin, ventunenne francese, parlando al nostro giornale — il mio sistema di valori è dettato da ciò che leggo e da ciò di cui parlo con gli altri. La democrazia rappresentativa mi sembra al capolinea, come certificato dalle varie crisi economiche e sociali. Noi ne siamo consapevoli ma, guardando alla disillusione dei nostri genitori, siamo incapaci di sposare un racconto collettivo. Forse la politica tornerà in forze a causa di una catastrofe di fronte a cui non avremo altra scelta se non quella d’inventare insieme un nuovo mondo».
A casa di Khadidja, studentessa parigina, «di politica si parla poco, i miei familiari non possiedono la cittadinanza francese e non possono votare». Nonostante ciò, «mi sono rapportata fin da subito con alcune falle di questo sistema. Uno dei principali punti di rottura lo ho vissuto a 15 anni, quando lo Stato ci ha obbligato a lasciare la nostra abitazione. Aver frequentato un’università prestigiosa è stata poi l’occasione per vedere i fallimenti del sistema educativo francese. Di fronte a queste lacune, ho deciso di aderire a “Cité des Chances”, associazione volta a educare alla cittadinanza nei quartieri popolari. L’idea non è solo quella di incitare al voto, ma anche di far capire come ogni persona sia legittimata a far sentire la propria voce, specie se si trova in periferia dove si diventa bersaglio della retorica dell’estrema destra secondo cui “immigrazione uguale delinquenza”. Il voto non è solo una scelta individuale».
Dagli Stati Uniti, Kennedy, studentessa nel Tennessee, osserva come «l’atteggiamento di ostilità nei confronti della politica da parte dei giovani americani sia in gran parte dovuto alla tossicità del nostro sistema bipartitico. I cittadini statunitensi si relazionano ogni giorno con la politica: dall’aumento dei prezzi alimentari ai costi per crescere i bambini e alle cure sanitarie. Queste azioni collegano la politica al voto, non il contrario. Ma, una volta arrivati alle urne, siamo obbligati a scegliere tra due candidati presidenziali impopolari. Ed optare per il male minore quando si vota il leader del proprio Paese genera in molti ragazzi un senso di sconforto e smarrimento».
In effetti, oggi i giovani convinti del fatto che la politica non abbia alcuna influenza sulla loro vita sembrano essere la maggioranza. Lauro, studente svizzero, non esita a dire che «il mio voto non cambia la mia vita né tanto meno quella degli altri, quindi è inutile». Daiki, dal Giappone, ammette di essere «poco interessato alla politica: al massimo vado a votare, ma a casa mia non se ne parla e tanto meno all’università».
Si dirà che certe considerazioni sono figlie dell’era dell’individualismo: ci si sente distanti dalla società perché il centro dell’esistenza siamo noi. Anziché la speranza di affidarsi al prossimo, prevalgono il sospetto e l’indifferenza. E la logica del consumismo, basata sul «tutto e subito», dà l’illusione di avere accesso a qualsiasi cosa: compromesso, attesa o speranza non hanno significato se tutto è dovuto.
Eppure, non è proprio questo dramma vissuto dall’individuo e perciò dalla collettività che accomuna disinteressati e disillusi? Chi non si sente rappresentato e chi è indifferente verso la politica non hanno in comune un senso di sfiducia verso l’idea di comunità? A Trieste, in occasione della settimana sociale dei cattolici in Italia, Papa Francesco aveva parlato della crisi della democrazia come un «cuore ferito»: se si fa sempre più fatica ad ascoltare e a dialogare, quindi a conoscersi, come pretendere che le persone — specie giovani — vadano a votare?
Per abbattere il muro con la politica non c’è bisogno di proteste di piazza né di campagne contro l’astensionismo, tanto meno di tecnocrati o di populisti. Citando ancora Papa Francesco, avremmo bisogno di risanare i cuori, passando per la sussidiarietà e la solidarietà, rafforzando i legami, puntando sui “poeti sociali”: leader capaci di recuperare il contatto con la realtà, ascoltando e dialogando, avvicinandosi, mettendosi in discussione, per poi decidere e agire. Chissà che non siano proprio i giovani — e non una catastrofe — a suonare la campana del risveglio.
L’Osservatore Romano – 18/7/2024