Diplomatici e militari di più Paesi raccontano che i funzionari francesi, quando avviano un ragionamento strategico, mostrano fieramente la carta di tutto il mondo. Perché, tengono a precisare, la Francia non è solo Parigi: è Nuova Caledonia, Polinesia e Mayotte, quindi Indo-Pacifico, è Guyana e Guadalupa, quindi America.

Ecco perché questo Paese non rinuncerà mai ai territori d’oltremare: essi servono a pensarsi e a rappresentarsi potenza mondiale, nonché a rivendicare la zona economica esclusiva più grande al mondo, soprattutto se dislocata in una regione come l’Indo-Pacifico cui americani e cinesi aspirano sempre di più.

Ne abbiamo parlato con Christian Lechervy, segretario permanente della Repubblica francese per il Pacifico dal 2014 al 2018 e Consigliere per l’Oceania e l’Asia presso l’Istituto francese delle relazioni internazionali (Ifri). «Sul piano militare, i mezzi francesi che stazionano a Nouméa e Papeete sono dispiegati dallo stretto di Malacca al Pacifico centrale e ci offrono numerose occasioni per esercitazioni bilaterali o multilaterali. Ad esempio, la fregata di sorveglianza Vendémiaire è stata dispiegata dal 22 aprile al 4 maggio nell’esercitazione marittima multilaterale Balikatan, al largo delle coste di Palawan, nelle Filippine. Quotidianamente circa 900 militari francesi sono impegnati in missioni di salvaguardia degli spazi marittimi, controllo della pesca e dei traffici illeciti nel Pacifico».

Lo stesso vale in termini economici se si pensa che, prosegue Lechervy, «nel 2022 il 58 per cento del commercio estero della Nuova Caledonia è stato effettuato con l’Asia e quasi la metà con la Repubblica Popolare Cinese». Tutto ciò consente alla Francia di essere integrata come membro regionale di questa area, «come dimostrato dall’apertura del consolato generale cinese a Papeete nel 2007 e dalla decisione del Giappone di inaugurare un’antenna consolare a Nouméa nel 2023».

Ed è proprio per questi motivi che, conclude Lechervy, «ci consideriamo non solo uno Stato del Pacifico, ma anche una potenza residente che nutre interessi rilevanti nell’area. Questa narrazione nazionale ci rende a pieno titolo un attore internazionale eccezionale. Nell’Unione europea siamo l’unico Stato ad esercitare una sovranità terra-aria-mare in Oceania».

Eppure, se è vero il luogo comune secondo il quale non c’è Francia senza grandeur, è altrettanto vero che fare dell’universalismo un tratto indistinguibile del proprio pensiero geopolitico può comportare dei rischi. Amministrare territori lontani dal proprio centro, di fronte a un mondo che cambia e al costante aumento della conflittualità tra potenze, è sempre più difficile.

Lo dimostra il caso della Nuova Caledonia, da sempre alle prese con la tensione tra nazionalisti e unionisti, quindi con la rivalità identitaria tra i fedeli alla Repubblica e gli indigeni kanak, la disuguaglianza economica e la gestione di riserve di nichel. Dopo una prima fase di dialogo avviata coi negoziati del 1998, nelle ultime settimane gli scontri sono aumentati, è stato proclamato lo stato d’emergenza e il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, si è recato in visita a Nouméa, capitale del territorio.

«Anche se credo si tratti di un fenomeno isolato, la soluzione ai problemi in Nuova Caledonia è complicata dalla guerra d’influenza ingaggiata dalle grandi potenze nell’Indo-Pacifico — commenta al nostro giornale Christophe Pipolo, direttore associato della società di consulenza strategica «La Vigie» —. La composizione del gruppo di rivoltosi che ha avviato le violenze non è stata resa pubblica e ciò lascia la porta aperta a interpretazioni contraddittorie o addirittura distorte rispetto alla realtà, spesso tese a indebolire la sovranità francese».

Certo, prosegue Pipolo, «per portare a termine un processo politico e istituzionale è necessario essere in due ed è indispensabile che entrambe le parti accettino il risultato dei referendum le cui regole sono state accettate in precedenza». Invece, l’ordine democratico in Nuova Caledonia è saltato. Da un lato, «c’è la radicalizzazione di gruppi estremisti, dovuta alla frammentazione del movimento indipendentista, alla radicalizzazione di una frangia minoritaria e alla crescita della violenza con le tragiche conseguenze». Dall’altro, «il governo si è dimostrato incostante: dopo il terzo referendum per l’autodeterminazione (2021), la sua lentezza in certi processi ha alimentato accuse di debolezza da parte dei lealisti e di forzatura delle decisioni da parte degli indipendentisti».

Il problema si rivela così di natura strategica e comunicativa: «Bisogna essere capaci di ammettere che, su alcuni temi di politica estera e sicurezza internazionale, la ricerca del bene comune è superiore alla ricerca di interessi particolari — riflette Pipolo —. Per farlo, è necessario formulare le proprie convinzioni, convincendo e coinvolgendo i vari interlocutori. Altrimenti, c’è il rischio che si imponga una realtà imperfetta. Questo è il duro dato di fatto che si presenta oggi alla Francia: in un momento in cui il mondo è impegnato in una vasta ricomposizione geopolitica e geoeconomica, in cui la pace è a rischio, mentre la globalizzazione ultraliberale ha mostrato i suoi limiti e il dominio occidentale è contestato, l’influenza francese in politica estera è più debole che mai».

Ed è in momenti del genere che il fattore decisivo diventa «la personalità dei decisori in carica, il loro modo di parlare e di agire». Il caos in Nuova Caledonia, allora, al di là dei problemi etnici e identitari, sembra dimostrare proprio questo: l’assenza di leadership, dialogo e strategia. Un problema, purtroppo, non solo francese. 

L’Osservatore Romano – 31/5/2024