Sei morti, oltre 200 arresti, l’aeroporto bloccato, gli ospedali chiusi e i supermercati presi d’assalto: nel fine settimana la situazione in Nuova Caledonia, territorio d’oltremare francese in cui vige lo stato d’emergenza, non si è per niente placata. La posizione di Parigi resta chiara: le dozzine di isole devono restare territorio nazionale perché rappresentano un vantaggio strategico e consentono di dichiararsi parte attiva nell’Indo-Pacifico.

Eppure, la crisi in Nuova Caledonia nasce proprio dal fatto che Stato francese, indipendentisti e nazionalisti non si parlano. Dopo i due referendum sull’indipendenza datati 2018 e 2020, previsti dall’accordo di Noumea del 1998, nel 2021 i caledoni hanno ribadito di voler restare nella Repubblica francese.

Ma i nazionalisti indigeni Kanak contestano questo risultato perché, nel referendum del 2021, il tasso di astensionismo è stato pari al 56,1 per cento. Non solo: i Kanak sono contrari al nuovo disegno di legge, adottato in Senato e in Assemblea nazionale, con cui Parigi intende concedere la possibilità di votare a chi risiede in Nuova Caledonia da almeno dieci anni. L’iniziativa darebbe diritto di voto ad almeno 25 mila persone – di cui 12 mila nate in Nuova Caledonia negli ultimi dieci anni – e, secondo i nazionalisti, cambierebbe i delicati equilibri politici interni.

Dietro le violenze e le bandiere a fasce orizzontali blu, rosse e verdi con un cerchio giallo al centro sventolate in piazza si nasconde quindi la rivolta identitaria di un popolo che non intende diventare minoranza culturale sul proprio territorio. Parigi non vuole indietreggiare, anche per timore di dover scendere a compromessi con le istanze nazionaliste di altri territori d’oltremare.

In ballo non c’è solo la presenza nell’Indo-Pacifico ma soprattutto la necessità di affermarsi come potenza globale. Ecco perché la Francia sta usando il pugno duro, come testimoniato dalla decisione di impedire l’accesso a TikTok in Nuova Caledonia (il social network cinese sarebbe uno dei mezzi di comunicazione preferiti dagli indipendentisti).

A proposito di possibili ingerenze esterne, la Francia ai è detta preoccupata dalla presenza di alcune bandiere dell’Azerbaigian in Nuova Caledonia. Il ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin, ha ipotizzato che l’Azerbaigian abbia un ruolo nel deterioramento dei rapporti con la Nuova Caledonia, mentre Baku ha negato categoricamente ogni legame con i leader della rivolta. Secondo Parigi, Baku sarebbe favorevole all’indipendentismo d’oltremare in risposta alla vicinanza della Francia all’Armenia.

Nel frattempo, l’instabilità politica e sociale interna sta distruggendo il già debole tessuto economico del territorio d’oltremare. La Camera di commercio e dell’industria francese ha stimato il costo dei danni in quasi 200 milioni di euro, ma il totale potrebbe salire a circa 40 miliardi di euro.

Dopo il rialzo dei prezzi delle materie prime nel 2021, persino il nichel – materia prima di cui la Nuova Caledonia è ricca e considerata centrale per l’innovazione tecnologica – costituisce un problema. Con scarso successo, ad aprile il ministro dell’Economia Bruno Le Maire aveva invitato autorità locali, governo nazionale e imprese interessate (cinesi, svizzere e canadesi su tutte) a firmare il piano di rilancio dell’industria mineraria che rappresenta almeno il 6 per cento del pil e il 20 per cento dell’occupazione nell’arcipelago. Per la Francia la possibilità di avere la più grande zona economica esclusiva al mondo è un vantaggio irrinunciabile tanto sul piano diplomatico quanto su quello militare. Tuttavia, il caos nei territori d’oltremare costringe Parigi a domandarsi se questi possedimenti siano una risorsa o un problema e a considerare quali passi compiere per affrontare certe incognite.

L’Osservatore Romano – 21/5/2024