Il ministro della Difesa australiano Richard Marles ha annunciato un aumento delle spese militari per 32 miliardi di dollari entro il 2034. In apparenza, l’incremento non è così significativo: nell’arco di dieci anni si passerà dal 2 al 2,4 per cento del prodotto interno lordo investito in spese militari. Tuttavia, il dato va accompagnato al documento con cui Canberra ha presentato la sua prima strategia di difesa nazionale.

Nelle ottanta pagine viene delineata una prospettiva cupa: si parla della «scomparsa delle ipotesi ottimistiche post Guerra Fredda» e si ammette di «essere una nazionale insulare» in cui «anche se l’invasione è una prospettiva improbabile, un avversario può arrecarci danni senza dover mai mettere piede sul nostro suolo». Anziché concentrarsi su un esercito in grado di svolgere una serie di compiti in più aree del mondo, l’Australia afferma quindi l’importanza di concentrarsi sulla costruzione di una forza deterrente in grado di proteggere gli interessi nazionali nelle sue vicinanze.

Che l’Indo-Pacifico sia sotto stretta osservazione lo dimostra un altro recente documento relativo alla difesa nazionale ma pubblicato dal Giappone. Nel «Diplomatic Bluebook 2024» si legge che, a causa delle «molteplici sfide provenienti da Repubblica Popolare Cinese, Corea del Nord e Federazione Russa», «l’ambiente di sicurezza intorno al Giappone è al suo punto più grave e complesso dall’era del dopoguerra».

Anche se Tokyo ha intenzione di promuovere una «relazione reciprocamente vantaggiosa basata su interessi strategici comuni» con Pechino – una formula usata l’ultima volta nel 2019 –, i «tentativi della Repubblica Popolare Cinese di alterare lo status quo nel Mar Cinese Meridionale» sono «fonte di serie preoccupazioni». Persino nei confronti degli alleati il Giappone dimostra una certa assertività: gli isolotti contesi da Tokyo e Seoul (chiamati «Takeshima» in giapponese e «Dokdo» in coreano) sono indicati nel documento come «territorio intrinseco del Giappone» e ciò ha scatenato una severa reazione sudcoreana.

Tanto le prospettive sul riarmo australiano quanto la centralità rivendicata dal Giappone andranno verificate nel lungo periodo e dovranno affrontare non pochi problemi interni, economici e demografici su tutti. Nel frattempo, il messaggio è chiaro: Canberra e Tokyo temono le attività cinesi e, in una fase in cui le grandi potenze sono impegnate sui fronti interni e sulla guerra in Ucraina e in Medio Oriente, gli attori regionali intendono fare di tutto per difendersi.

Non solo: gli alleati degli Stati Uniti sembrano ribadire tanto la centralità economica e tecnologica quanto la conflittualità geopolitica dell’Indo-Pacifico pur di non ritrovarsi costretti ad aiutare Washington in zone troppo lontane dalla propria area di interesse.

Intenzionati a circondare geograficamente la Cina, gli Stati Uniti hanno nuovamente confermato di aver colto la sfida: dopo il vertice trilaterale con i leader di Filippine e Giappone della scorsa settimana, Washington ha tenuto esercitazioni militari congiunte nel Mar Cinese Orientale con Tokyo e Seoul, poi ha schierato il nuovo sistema missilistico a medio raggio “Typhon” nella zona settentrionale di Luzon, isola delle Filippine in cui si trova la capitale Manila e che dista circa 300 chilometri da Taiwan.

Eppure, le instabilità politiche sul fronte interno e le troppe incognite globali sembrano pesare tanto sugli Stati Uniti quanto sulla Cina. Ecco perché, a distanza di oltre due anni, in seguito al vertice di San Francisco tra Joe Biden e Xi Jinping, Washington e Pechino sono tornate a parlare di sicurezza regionale e globale: in una videoconferenza il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin e il suo omologo cinese Dong Jun hanno rimarcato l’importanza della libertà di navigazione garantita dal diritto internazionale, soprattutto nel Mar Cinese Meridionale. Un seme di speranza in uno scenario sempre più complesso.

L’Osservatore Romano – 6/5/2024