Una maschera sul volto e un fucile tra le braccia, la paura come pensiero costante e la rabbia come sentimento dominante, poi si gira l’angolo e si apre il fuoco. Perché o si muore di fame o si prendono le armi. Tanto da Haiti non si può più uscire né entrare: da quando le bande locali hanno preso il controllo del Paese, strade, porto e aeroporto sono chiusi. Secondo le stime delle Nazioni Unite, quattro milioni di abitanti del Paese caraibico si ritrovano ad affrontare una grave insicurezza alimentare, un milione di queste è a un passo dalla carestia e oltre 350.000 sono sfollati.

Per comprendere meglio la situazione, «L’Osservatore Romano» si è rivolto a chi conosce bene i giovani haitiani: don Carl Enrico Charles è un sacerdote salesiano, educatore e preside della scuola superiore “Collège Dominique Savio” a Petion-Ville, sobborgo della capitale haitiana di Port-au-Prince.

Chi sono i giovani haitiani?

Sono innanzitutto ragazzi e ragazze vulnerabili. Molti di loro vivono in un ambiente familiare difficile, segnato dalla povertà materiale e culturale, dalla mancanza di opportunità. Sono disperati. Alcuni si rivolgono alle bande criminali, che offrono loro un senso di appartenenza e un mezzo illegale per mantenersi. Altri diventano vittime. In quanto educatore che li frequenta quotidianamente, vedo sui loro volti la paura e la mancanza di speranza. C’è un senso di frustrazione e di impunità di fronte alla situazione del Paese. La Chiesa ha un ruolo cruciale da svolgere nel continuare a offrire loro educazione e speranza, insomma un’alternativa alla violenza. Solo che, di fronte alla portata della sfida, spesso mancano le competenze e le risorse materiali.

Quali sono le principali difficoltà che state affrontando?

La sicurezza è una preoccupazione costante. Le nostre scuole a volte devono chiudere e le nostre attività pastorali sono limitate. Inoltre, la povertà rende difficile l’accesso all’educazione e ai servizi di base. Nel mio caso, gestire una scuola secondaria è una sfida quotidiana. Dovremmo lavorare online, ma con quali mezzi visto che non c’è quasi elettricità e l’accesso a internet è un lusso? Pensate che il rumore costante dei proiettili possa incentivare lo studio? Ecco perché la Chiesa deve continuare a denunciare le ingiustizie e la corruzione che colpiscono il Paese, senza paura. Anche se ciò può ostacolare la nostra missione e costringerci a essere più prudenti.

Soprattutto se la situazione politica è così instabile. Che tipo di conseguenze può avere la transizione in atto?

Haiti è uno Stato fallito. L’instabilità e la confusione regnano sovrani da tempo. Ora le dimissioni del primo ministro, Ariel Henry, aggiungono ulteriore incertezza. Sebbene sia difficile prevedere il futuro, un colpo di Stato non è lo scenario più probabile, ma l’assenza di leadership sta creando un vuoto che le bande potrebbero colmare. Ecco perché dobbiamo agire. E, per farlo, la comunità internazionale deve riconoscere la propria responsabilità nel creare e alimentare questo caos: essa ha quasi sempre imposto e sostenuto leader corrotti. Ora bisogna aiutare gli attori politici e la società civile di Haiti a trovare una soluzione politica inclusiva, ripristinando la pace, organizzando libere elezioni e sostenendo il nostro sviluppo. È il momento di agire e non abbiamo il diritto di sbagliare questa volta.

In questo caos totale, come sta la comunità cattolica locale?

Stiamo soffrendo. La violenza delle bande colpisce tutti, è un dato di fatto. Le porte di alcune chiese sono costrette a rimanere chiuse per paura. Le liturgie sono spesso interrotte. I rapimenti di sacerdoti, religiosi e religiose sono in aumento. Siamo costretti a pagare somme colossali come riscatto. Negli ultimi mesi, ad esempio, una delle nostre comunità salesiane a Port-au-Prince è stata presa in ostaggio da bande armate. Questi criminali costringono i salesiani a vivere con loro in un clima di violenza e di insicurezza permanente. Nonostante queste difficoltà, la fede rimane forte. La Chiesa si sforza nel mantenere la sua presenza e la sua missione tra una popolazione martoriata. Non dobbiamo dimenticare che anche nelle tenebre può e deve brillare la luce della fede.

L’Osservatore Romano – 15/3/2024