Nel 2023 in Corea del Sud sono nati 229.970 bambini, un calo del 7,7 per cento rispetto al 2022 per il Paese col tasso di fertilità più basso al mondo (0,72). La situazione non è diversa in Giappone: nel Paese con l’età media più alta al mondo (48 anni), nel 2023 sono nati 758.631 bambini, il minimo storico.
Viene spontaneo domandarsi come sia possibile che, proprio negli Stati ritenuti centrali per la crescita tecnologica ed economica mondiale, non si facciano più figli. Ancora una volta, la logica economicista non basta a spiegare la realtà. Le cause vanno ricercate nei fattori umani che muovono le collettività e, in questo, Tokyo e Seoul si assomigliano.
Innanzitutto, entrambi i Paesi hanno un approccio rigido alla migrazione, fenomeno fondamentale per il destino demografico di un Paese. Se in Giappone lo shintoismo ha favorito una visione centralizzata dell’etnia nipponica, in Corea del Sud a causa della propria storia nazionale — caratterizzata da invasioni e divisioni — chi non è coreano viene spesso visto come una minaccia culturale o materiale per il Paese.
Di conseguenza, in Giappone il numero di lavoratori stranieri ha superato per la prima volta quota due milioni solo alla fine di ottobre 2023, anche se essi continuano a rappresentare meno del 3 per cento della forza lavoro nazionale. Secondo il sondaggio condotto dall’East Asia Institute sull’identità sociale sudcoreana nel 2020, il sostegno al multiculturalismo è calato da oltre il 60 per cento nel 2010 al 44 per cento nel 2020. A causa di leggi sull’immigrazione molto rigide, solo nel 2023 Seoul ha aumentato a 110.000 il numero massimo di visti disponibili per i lavoratori provenienti dall’estero.
L’enorme crescita economica di questi due Paesi negli ultimi cinquant’anni ha richiesto maggiore istruzione e maggiore contributo alla forza lavoro che, a causa della scarsa migrazione, è provenuto dall’interno. Ciò significa che le ambizioni sociali degli abitanti sono cambiate, ma come?
Spinte dall’aumento delle ore di lavoro e dall’urbanizzazione, sempre più persone si sono spostate nelle metropoli, creando tuttavia problemi economici nell’accesso ai servizi: a Seoul, ad esempio, l’importo medio di un mutuo è aumentato del 73 per cento rispetto all’anno precedente e ha toccato quota 164,17 milioni di won nel 2022 (oltre 116.000 euro).
Nel frattempo, l’attenzione alla vita comunitaria non è però evoluta nello stesso modo e troppi giovani si sono sentiti costretti a scegliere fra lavoro o famiglia. Di fronte a uno stile di vita in rapido cambiamento, l’individualismo ha preso il sopravvento, proprio come in Occidente.
A testimoniarlo, la crescita della disaffezione alla vita pubblica: il 52 per cento dei giapponesi dice di non sostenere alcun partito, mentre i giovani medici sudcoreani continuano uno sciopero contro il governo che sta paralizzando da giorni il sistema sanitario. Affianco al calo della natalità, va poi registrato come in Giappone il numero di matrimoni sia al livello più basso dalla fine della seconda guerra mondiale. Secondo i dati di Statistics of Korea, il numero di nuove coppie sudcoreane è sceso di oltre il 6 per cento nel 2022.
Quando si parla di relazioni, non va sottovalutata la condizione della figura femminile. In Giappone il numero di donne lavoratrici è sì in aumento, ma il motto «ryōsai kenbo» («buona moglie, saggia madre») è ancora diffuso. Dopo il sisma dello scorso gennaio, gli oggetti personali più difficili da reperire nelle aree terremotate nipponiche erano proprio quelli per donne e mamme. Nel 2022 solo il 17 per cento dei maschi giapponesi ha usufruito del congedo parentale contro l’80 per cento delle donne, situazione simile alla Corea del Sud dove, nello stesso anno, solo il 7 per cento dei neopapà aveva utilizzato parte del congedo contro il 70 per cento delle neomamme.
Scenari culturali e demografici simili non possono essere visti in modo isolato, specie in un contesto geopolitico come quello dell’Indo-Pacifico. La protezione americana, che vede in Tokyo e Seoul due alleati, contribuisce a infondere sicurezza e tranquillità. Ma un Paese vecchio fa meno paura di uno giovane.
L’Osservatore Romano – 14/3/2024