«Questa è una canzone che parla dei sentimenti. Dovete chiudere gli occhi e immaginare un po’ quello che volete. Il titolo originario era “Dialettica dell’immaginario”. Poi un uomo rozzo ha cambiato il titolo e a voi è arrivata come “Cara”». Così, durante il concerto di Piacenza datato 2 settembre 1981, Lucio Dalla introduceva uno dei suoi capolavori. Che, come confessato dal cantautore bolognese al giornalista Gino Castaldo, aveva proprio questa ambizione: «Raccontare il meccanismo progressivo d’invenzione del desiderio».
Perché, in fondo, aveva ragione Jean Paul Sartre quando diceva che pensare l’immagine significa concepirla non a partire dalla presenza dell’oggetto immaginato, bensì a partire dalla sua assenza. Ciò che l’individuo immagina non è estraneo alla realtà. Piuttosto, è assente dalla realtà. Proprio a causa di questa assenza, camminare nell’interregno dell’immaginario significa non solo desiderare e cercare qualcosa, ma anche non accontentarsi, sognare di trasformare l’immagine in azione, mettersi in cammino, ambire al cambiamento.
Di qui, la necessità di dedicare l’appuntamento mensile di #CantiereGiovani all’immaginazione e all’immaginario: temiamo che sempre meno ragazzi abbiano l’esigenza di rifugiarsi nell’immaginazione per trovare qualcosa che nella realtà non c’è. Perché non accusano più l’assenza di qualcosa. Tutto è scontato perché tutto è dovuto. Ogni cosa sembra globale, connessa, digitale quindi conosciuta, conoscibile ed esplorabile.
Certo, questo da un lato è un bene. Il progresso umano sta dando grandi risultati, eppure, pare di vivere in un’epoca paradossale, basata su immagini, film, serie-tv, YouTube, selfie, stories e reels da Instagram a TikTok, ma non sull’immaginazione.
Non c’è tempo di sognare perché gli adulti ci raccontano un mondo che cambia sempre più velocemente, non c’è spazio per divagare se una notifica sullo smartphone ci riporta alla realtà, non c’è relazione sentimentale che per sbocciare possa attendere e rispettare le esigenze individuali perché tutto va posseduto e consumato nel qui e ora, altrimenti non siamo normali.
Tutto vero. Ma a quale costo? Perdere l’immaginazione significa perdere il nettare della gioventù. Significa, cioè, perdere la speranza di cambiare. La percezione della realtà e l’astrazione dalla realtà, la distanza e il sacrificio, la solitudine e la riflessione sono necessari alla crescita: permettono di analizzare chi e cosa ci circonda, riflettere sul proprio ruolo, cercare una vocazione nel mondo che cambia. E nell’immaginario tutto ciò inizia a plasmarsi per poi prendere vita nella realtà — passaggio obbligato per non restare, citando Ennio Flaiano, «coi piedi ben piantati sulle nuvole».
Ecco perché gli articoli di queste pagine sono mossi da una serie di domande rivolte ai ragazzi: cosa è l’immaginazione? Ti capita di immaginare? Quale immagine ti viene in mente quando pensi a Dio? Come è evoluto l’immaginario collettivo nel corso degli anni?
Nelle scuole italiane si passa tanto tempo su Giacomo Leopardi. Troppo spesso, però, si dimentica di cercare il senso del non detto e l’invito — sottaciuto — al lettore. Che, in una poesia come L’infinito, forse è questo: raggiungere il colle di Recanati, magari in un giorno d’estate, ancora meglio se accompagnati da qualcuno cui si è legati, mettersi comodi, sedere e mirare, in silenzio immaginare cosa si nasconde al di là di quella siepe. Sarà lì, in quell’interregno che dalla realtà prende vita e nell’immaginazione si perde, che «mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei».
L’Osservatore Romano – 5/3/2024