Cabeça da Onça, “la testa della tigre”, è un villaggio situato lungo il fiume Papuri abitato dagli Hupda, una popolazione indigena che vive di caccia, pesca e coltivazione di mandioca e non ha alcun accesso a internet. Qui, in questa zona sperduta del Brasile, nella zona settentrionale dell’Amazzonia, è nata una nuova comunità cristiana. Ne parla con gioia a «L’Osservatore Romano» don Wellington Abreu, 30 anni, sacerdote salesiano, parroco di San Michele Arcangelo a Iauareté, nella diocesi di São Gabriel da Cachoeira: «È molto difficile arrivare al villaggio perché questa comunità vive nelle foreste e lontano dalle rive dei fiumi principali. Da Iauareté impieghiamo sei ore e dobbiamo attraversare il fiume Papuri, pericoloso per le sue cascate. Utilizziamo una barchetta con un motore di 40 cavalli. Molto spesso rischiamo la vita a causa del maltempo. A proposito, ne approfittiamo per lanciare un appello: la nostra imbarcazione ha un motore vecchio di 22 anni e avremmo bisogno di uno nuovo».
In aree simili la comunicazione è ridotta al limite: «I sistemi radiofonici — spiega Abreu — non funzionano più, internet non prende, la comunità locale abita in mezzo alla foresta, sono indigeni e parlano solo la loro lingua». C’è poi da considerare che «nella logica gerarchica indigena, gli Hupda vivono un’esistenza ancora più complessa perché, secondo la tradizione, sarebbero gli ultimi usciti dal grembo di questa divinità che ha creato il mondo e perciò vivono lontani dagli altri». Eppure l’impegno cristiano cerca di superare ogni difficoltà: «Da anni i missionari fanno visita a questo villaggio ma non sono mai riusciti ad avviare una preparazione seria al battesimo a causa dei tanti problemi non solo sanitari e ambientali, ma soprattutto etnici, sociali e politici». Uno su tutti: questa comunità si trova al confine con la Colombia e spesso i gruppi terroristici attraversano il confine aggredendo gli indigeni e mettendo in pericolo i missionari.
Col tempo la situazione è cambiata. Innanzitutto le difficoltà locali e l’aiuto dei missionari hanno convinto gli Hupda a diventare un popolo sedentario e non più nomade. L’autonomia sociale ed economica, così come la scelta di vivere a Cabeça da Onça, hanno reso più difficile nuove incursioni territoriali da parte dei criminali. Così l’anno scorso padre Wellington è tornato a far visita al villaggio e, grazie all’impegno del ministro straordinario della comunità di Santa Teresinha de Uirapixuna, Domingos Botero Dias, è stata avviata la costruzione di una comunità basata sul catechismo e sull’adesione ai valori cristiani. Dopo un anno intenso di preparazione e accompagnamento, a gennaio il 95 per cento della comunità Hupda è stata battezzata. Si tratta di ben quarantasei persone indigene. Nessuno aveva ancora ricevuto il primo dei sacramenti. «Alcuni erano fuori per la caccia e non hanno potuto partecipare — commenta il sacerdote salesiano — ma nel villaggio chi era presente ha deciso con consapevolezza e serenità di farsi battezzare: dal più piccolo ai più grandi, da un bambino di 3 anni a una signora di 72. Poi hanno dato vita a una grande festa in cui cantavano, ballavano e mangiavano. Erano tutti felici».
È proprio la felicità a costruire la base di questa comunità, capace di sorprendere tanto per il suo stile di vita quanto per le sue decisioni. «Esserci: è questa la nostra missione qui», ribadisce Abreu. Eccola, dunque, la gioia della manifestazione di Dio, che si palesa anche e soprattutto nelle aree più remote e apparentemente dimenticate del pianeta. Una soddisfazione ancora maggiore per i salesiani locali perché accompagnata dalla scelta del santo patrono: la comunità locale ha optato per Artemide Zatti, infermiere e missionario italiano naturalizzato argentino, coadiutore salesiano, beatificato nel 2002 da Giovanni Paolo II e canonizzato da Francesco nel 2022.
L’Osservatore Romano – 24/2/2024