Giù la maschera, su la spada. Quattro metri di distanza tra i tiratori. «Allez!», urla l’arbitro. Ed ecco che inizia l’assalto. Passo avanti, passo incrociato, passo indietro, parata, controparata e risposta. Poi, l’affondo sulla pedana. L’arma da impugnare come un tagliacarte e non come un bastone, perché la presa dev’essere sicura ma non contratta. Obiettivo: attaccare e difendere per raggiungere le 15 stoccate alla fine dei tre tempi da tre minuti ciascuno. Tutte le azioni devono rispondere a tre criteri: tempo, velocità e misura. Quando, come e dove. Fioretto, spada, sciabola. È la scherma.
«Uno sport che insegna il senso del rispetto – esordisce al nostro giornale Davide Di Veroli, schermidore romano di 22 anni, campione mondiale ed europeo in carica – a prescindere dal risultato, a scherma bisogna sempre salutare con rispetto l’avversario, l’arbitro e il pubblico. Certi atteggiamenti non sono tollerati, altrimenti si viene squalificati. È una situazione forzata ma giusta. Ed è uno degli aspetti che rende unica questa disciplina».
«A me invece la scherma ha insegnato lo spirito di adattamento – riprende il fratello Damiano Di Veroli, campione del mondo under-20 di fioretto maschile 2023 – fin troppe volte, sulla pedana, capita di sentirsi deboli: sono teso, ho dormito male, non riesco a gestirmi. Ti puoi sentire nelle peggiori condizioni, ma se c’è una cosa che ho imparato in tutti questi anni è che lo sport è quotidianità. Tutto può cambiare in un minuto d’intervallo o quando, dai gironi, si passa alle dirette. E lo sport, al di là del risultato fisico, aiuta proprio a questo: conoscersi meglio, adattarsi, affrontare la quotidianità».
Ma da dove si inizia? E come? «A casa – risponde Davide – da piccoli eravamo irrequieti, quindi i nostri genitori ci hanno spinti a fare sport, invitandoci a fare qualcosa di costruttivo e assicurandosi che stessimo lontani dalla strada. Dopo anni di nuoto, abbiamo seguito nostra sorella Aurora nell’idea di fare scherma. Io a sette anni non sapevo neanche cosa fosse. Ma dopo quelle due settimane di prova è stato amore a prima vista». «All’inizio ho avuto dei momenti di esitazione – ammette Damiano – risolti in neanche una settimana. E così, dopo quindici anni, siamo ancora nella stessa palestra al Torrino in cui abbiamo iniziato: penso sia uno dei pochi casi al mondo in cui degli atleti sono rimasti tanto legati a una palestra e ai loro maestri», conclude Damiano facendo riferimento a Mario Massimo Ferrarese e Maria Pia Bulgarini.
Con l’impegno, arrivano le vittorie regionali e nazionali, poi quelle internazionali e l’ingresso nel gruppo sportivo delle Fiamme Oro: la scherma è, tanto per Davide quanto per Damiano, un lavoro a tutti gli effetti. Che però non impedisce loro di studiare perché, osserva Damiano, «abbiamo una madre piuttosto severa che ci ha obbligato sempre a studiare. Quante volte ci ha detto “potete essere forti quanto volete, ma dovete saper parlare”. Si tratta anche di una sfida personale: ci sono persone che, trattandoci da atleti, ci sottovalutano». Certo, prosegue Davide, «abbiamo fatto sempre dei sacrifici, ma non li chiamerei così. Sono state scelte necessarie a inseguire un sogno. I sacrifici si fanno in qualsiasi mondo: dallo sport al lavoro fino all’amore. Sta a noi comprendere il valore di quella singola azione. Nel mio caso, posso dire che ne è valsa la pena. Anche perché, prima che atleta, voglio essere identificato come persona».
Ragionamento ancor più valido quando, alle spalle di un giovane atleta, c’è un rapporto sereno con la propria famiglia: «Siamo una famiglia ecumenica – raccontano i due fratelli – nostro papà è ebreo e nostra mamma è cattolica. Quando siamo insieme, andiamo tutti a messa e tutti festeggiamo le feste ebraiche. Il senso del rispetto e dell’attenzione verso il prossimo non può che partire dalle mura di casa». E da lì arriva fino alla pedana. Si potrebbe pensare che questo sia uno sport conflittuale, fondato sull’uso dell’arma e sull’avversario da abbattere. «Ma non è così – assicura Davide – certo, essendo uno sport di combattimento, l’obiettivo principale è colpire. Un minimo di conflittualità ci dev’essere. Però dev’essere una conflittualità agonistica. Non ho mai avuto voglia di lottare contro l’avversario».
Ma la vittoria più bella qual è stata? «Quella del mondiale a squadre di quest’anno – replica Davide – è stato un percorso lungo e travagliato, sia per i miei compagni di squadra sia per me». «Anche per me quella del mondiale – risponde entusiasta Damiano – non tanto per la competizione in sé, ma perché era la prima vittoria individuale. Ho pianto dalla gioia: è stato il momento più bello della mia vita. La scherma è uno dei pochi sport che fai perché ti piace, mica per i soldi».
L’Osservatore Romano – 29/09/2023