“Barbonismo domestico” sembra un ossimoro. Quando si pensa a un “barbone”, si pensa a qualcuno che vive per strada. Nell’immaginario comune non esiste un “barbone” con una domus, un vagabondo che vive in un appartamento, un mendicante confinato dentro le proprie mura. In realtà, queste due parole spalancano una porta di casa e conducono dritte al cuore della povertà.

Nell’abitazione di un “barbone domestico” possono mancare l’acqua, il gas, la luce, la sporcizia è ovunque, il bagno è lercio e la cucina improponibile, gli animali domestici si mischiano agli animali indesiderati, le porte restano chiuse e le finestre sbarrate. L’accumulo diventa un comportamento compulsivo: vestiti, riviste e scatole, cose ordinate con criteri immaginari o semplicemente buttate qua e là. Dagli spifferi l’odore di sporco si diffonde nei condomini. Tutti se ne accorgono, molti trattengono il respiro, pochi s’interrogano, quasi nessuno interviene.

Lì, dietro una porta che sembra delimitare il confine con l’abisso, si nascondono loro. Persone scartate, vittime della società dell’esclusione, per cui l’accumulo diventa l’unico modo per colmare il vuoto di un’esistenza che non trova più ragioni di vita. Perché, a differenza dei senzatetto, loro hanno una casa? Quanto è difficile fare i conti con il passato, uscire di casa con la vergogna di mostrarsi debole e diverso, povero? Cosa succede quando un “barbone” chiude la porta della propria abitazione?

No, non si tratta di persone diverse o lontane da noi. Oggi il mendicante non è solamente chi vive per strada. Può abitare nei nostri stessi condomini. La paura di sentirsi diversi ha costretto a chiudersi dentro casa persone che hanno subìto licenziamenti e precarietà, crisi personali e drammi familiari, divorzi e perdite di figli. Questi esseri umani hanno conosciuto l’inflazione, quella vera, interminabile, che morde e costringe a tirare indietro la mano quando si fa la spesa al supermercato. Tra alcol, azzardo e droga, spesso sono affette da dipendenze. Essi convivono con la sofferenza, con passati normali e presenti anonimi.

Proprio per questo, le loro sono storie di quotidianità. Sono anche le nostre storie. Perché, alla base di tutto, c’è la solitudine. I “barboni domestici” hanno paura della relazione, evitano il contatto fisico, temono di essere visti. Tuttavia, non sanno stare da soli. Si rifugiano dentro casa, cercano “compagnia” tra le scartoffie, i ricordi, le piante del terrazzo o gli animali di casa. Un po’ come fanno gli hikikomori (dal giapponese «stare in disparte»), quei giovani tra i 14 e i 30 anni che si rinchiudono nella propria stanza per paura di vivere e si circondano di mezzi tecnologici per giocare o messaggiare con persone da tutto il mondo.

Un po’ come facciamo tutti noi quando, di fronte alla solitudine, cerchiamo perennemente di distrarci. E allora ecco le chat sul telefono, la musica nelle cuffiette, la serie-tv vista persino sugli autobus, i podcast e le parole crociate. Oppure, ecco la ricerca compulsiva di un contatto col prossimo, finalizzata non alla socializzazione bensì al benessere individuale, al non voler pensare. Per questi motivi si finisce per interagire sempre con qualcuno che ci somiglia: dalla società si cercano certezze, non stimoli e dubbi. Così, chi è diverso diventa uno scarto. E l’uomo si fa scadente, mediocre, ordinario, uguale a tutti gli altri. Diventa invisibile al mondo.

A sollecitare «L’Osservatore di Strada» a raccontare questa faccia nascosta della povertà sono stati gli amici del servizio Aiuto alla persona della Caritas diocesana di Roma, che ogni giorno si bussano alle porte di vecchi condomini o di palazzine moderne, dal centro alla periferia, anche solo per chiedere: «Come sta?». L’intento non è quello di proporre soluzioni, ma di suscitare consapevolezza. Il “barbonismo domestico”, se così lo si vuol chiamare, non può essere relegato a fenomeno economico o sociale e tantomeno a questione di igiene pubblica e sicurezza. È, innanzitutto, un fenomeno psicologico. È fatto di persone.

Le storie che raccontiamo ci parano della necessità di intervenire con bonifiche e cura della persona, ma soprattutto di stimolare una relazione di fiducia, di accostamento e di credibilità. Serve iniziare un percorso nuovo, fatto di mitezza, relazioni e umanità.

Percepire, cogliere, specchiarsi. Non per considerarsi migliori o peggiori, bensì per riflettere prima e intervenire poi. Per accorgersi di quanto la nostra identità può essere simile a quella del prossimo, persino a quella di un “barbone”. Sì, queste sono anche le nostre storie.

L’Osservatore di Strada – 1/10/2023